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Dan Flavin, un ammaliante rompicapo fluorescente

Gli spazi imperialmente ultracontemporanei del Kunstmuseum di Basilea, sede della mostra ‘Dediche di luce’ (fino al 18 agosto)

Dan Flavin, (to Don Judd, colorist)
(Stephen Flavin / 2024, ProLitteris, Zurich - Panza Collection, Mendrisio - Florian Holzherr)
6 agosto 2024
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C’era un senso di magia quando si andava alla villa Menafoglio Litta Panza di Varese, percorrendo il corridoio fluorescente definito Varese Corridor e l’aura di colore usciva dai loculi dove erano state allestite le altre opere di Dan Flavin; poi, ti affacciavi e vedevi come un’altra luce, un altro colore e vivevi quasi in estasi la destabilizzazione del tuo universo percettivo. La difficoltà era peraltro forgiata dal desiderio di incontrare il mitico conte Giuseppe Panza che spesso conduceva a passeggio il proprio sorriso gentile con l’ulteriore aura, storicistica, del genio capace di individuare e selezionare il valore artistico prima degli altri. Nel presentare il lavoro di Flavin, Panza insisteva sugli aspetti trascendentali, definendolo un introibo all’assoluto.

C’è un senso di magia nel percorrere gli spazi imperialmente ultracontemporanei del Kunstmuseum di Basilea, perfettamente allestiti nella attuale mostra dedicata a Dan Flavin significativamente intitolata Dediche di luce. Di sala in sala, ciascuna fonte luminosa (è imbarazzante parlare di opere perché l’artista non riconosceva questo termine: “Preferisco il termine proposta e mi sforzo di usarlo con precisione”) ci induce a vivere in un modo inedito lo spazio architettonico del museo e induce in noi la sensazione di entrare in una pittura, in un micro-universo definito dal colore o dalla integrazione di colori. Ci muoviamo lungo la mostra con un senso di inquieto benessere e di ammirazione per la precisione degli effetti e del modo in cui essi sono ricreati, in questa occasione, per noi.

Tutta questa sensazione di habitus aureo è anche il frutto di tensione tra i piani di fruizione generale; ne abbiamo due mirabili esempi nella mostra. Uno è nella sala di passaggio inondata della luce verde generata da una griglia di neon (To you, Heiner, with admiration and affection – 1973) che si integra perfettamente, quasi troppo, con la griglia della porta in metallo che dà accesso alla sala.


Stephen Flavin / 2024, ProLitteris, Zurich - Panza Collection, Mendrisio Photo - Florian Holzherr
Dan Flavin, untitled (to my dear bitch, Airily)

Il secondo esempio è la sala sotterranea nel passaggio tra l’architettura originaria e l’edificio aggiunto di recente. La sensazione quasi devozionale generata dalla luce vive un ulteriore straniamento perché i neon della illuminazione del museo si inframmischiano con i neon blu e verdi di Untitled (to my dear bitch, Airily). Tutto sembra essere parte della stessa unità, c’è unitarietà tra l’illuminazione della grande sala e la luce emanata dal modo in cui Dan Flavin ha progettato la sequenza di neon. Ma dov’è dunque la differenza tra il contributo di Flavin e l’impianto di illuminazione del museo?

L’allestimento è efficace anche da questo punto di vista e nel saggio scritto da Simon Baier per il catalogo abbiamo una ricostruzione impegnativa quanto interessante di alcuni aspetti del lavoro di questo artista. Baier parte da una citazione che possiamo provare a tradurre in questi termini: “La mia proposta consiste eminentemente nella pratica interna di porre strisce di luce fluorescente”. Egli sottolinea che “il termine ‘proposta’ delinea anche la sua arte come uno sforzo piuttosto empirico; rimane approssimativo e forse anche provvisorio. Non implica rivendicazioni universali”. Parlando di “indoor routine, sembra sottolineare ancora di più questa prospettiva auto-limitante. Come una persona si lava i denti, butta la spazzatura, pulisce i pavimenti, Flavin rende l’arte una pratica quotidiana che non necessariamente consegna lavori finiti… una attività che non ha caratteristiche eccitanti né eccezionali, fa parte dei ritmi della vita comune. … È una forma di consuetudine. … Caratterizza il proprio lavoro non come una progressione di scoperte, innovazioni o di superamento di se stesso, ma piuttosto come un'esecuzione ripetitiva, profana e ciclica di attività quotidiane”.


Stephen Flavin / 2024, ProLitteris, Zurich - The Museum of Modern Art, New York
Dan Flavin, alternate diagonals of March 2, 1964 (to Don Judd)

Quando noi, in generale, diciamo che l’artista è un lavoratore come un altro, diciamo la stessa cosa e il saggio di Baier parte da questa consapevolezza per poi svilupparla, indugiando sul ruolo che la elettrificazione dell’ambiente ha generato nel nostro modo di vivere, nella nostra sensibilità rispetto ai ritmi della quotidianità, rispetto al concetto di distinzione, di memoria anche storica, sulla ambizione di controllare le condizioni della nostra vita a partire dalla differenza tra il giorno e la notte e sull’utopia di governare il clima fino alla generazione delle perturbazioni atmosferiche. Questioni che peraltro sono di cocente attualità.

Con la consapevolezza di quanto il lavoro artistico sia normale (ciò non significa affatto che sia facile), Flavin ci propone uno stupefacente intrico di temi, questioni e significati.

Partiamo dalla rivendicazione tautologica: applicarsi a un impegno apparentemente dozzinale e accendere delle luci. Accendendo la luce si crea una luce (tautologia) ma il modo in cui tale “proposta” viene messa in opera da Flavin mette in gioco il colore o, meglio, il rapporto tra colore e luce. Dalla civiltà dell’illuminazione industriale vengono estrapolate modalità possibili di generare, con la lampada fluorescente, un ambiente cromatico. È una proposta minimale che però ci conduce di fronte alla strutturale questione pittorica del rapporto tra luce e colore e della gerarchia tra i due nel nesso di causa ed effetto.

Luci di colori diversi, poi, generano ambienti cromatici ulteriori e la nostra percezione è condotta in aree di significato suggestive quanto difficilmente delimitabili. Possiamo pensare, a distanza, a ciò che ha fatto Josef Albers giustapponendo sistematicamente colori diversi all’interno di forme geometriche basilari come il quadrato, oppure al modo in cui Pierre Soulages chiede alla luce di generare colori (per esempio argento, oro, blu) dai neri che egli stende su superfici piane.

Dan Flavin agisce anche da scultore, non tanto perché le sue opere sono oggetti tridimensionali, quanto perché egli estrae dalla realtà materica alcune delle componenti in essa contenute, cioè la luce e il colore dalla sorgente elettrica della luce. Se poi leggiamo i titoli e le tante dediche, ci ritroviamo in un contesto di forte relazionalità all’interno della società artistica coeva, della storia, della società. È un segno di quanto sia importante la sensibilità politica di Dan Flavin, la cui “routine” ci si propone come una forma si astrazione delle condizioni della vita moderna, così come Mario Nigro ha fatto con i suoi quadri. Il groviglio di registri espressivi e percettivi generato da questo artista non finisce di dipanarsi e ricomporsi e di ammaliarci.


Gianfranco Gorgoni © Maya Gorgoni
Dan Flavin, New York - 1970

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