Il figlio Daniel ha recentemente ridato vita allo spazio Maillet di Verscio. Fino al 18 agosto, gli acquerelli del padre ispirati al teatro di Dimitri
Dopo oltre vent’anni di attività artistica trascorsi in Brasile, Daniel Maillet è di recente tornato in Europa e, su richiesta di alcuni collezionisti e amici desiderosi di rivedere le opere di Leo Maillet (1902-1990), ha ridato vita all’atelier del padre facendone un raffinato spazio multiuso in cui, nei prossimi mesi, si alterneranno altre mostre. Ciò che non può che rallegrare in un tempo come quello nostro caratterizzato da una profonda dicotomia: mentre in varie capitali europee importanti esposizioni museali registrano code lunghissime di visitatori e le vendite all’asta fatturano cifre sbalorditive di incassi, in realtà sul territorio le gallerie – salvo le pochissime che ancora resistono – scompaiono una dopo l’altra e la desertificazione culturale avanza.
In questo caso l’apertura di uno spazio espositivo non significa solo dare modo agli artisti di farsi conoscere e di poter vivere grazie al proprio lavoro; ci si sente dentro anche la volontà di portare avanti una storia di famiglia legata all’arte e trasmessa dal padre al figlio in una sorta di dialogo che attraversa il tempo. Vi si aggiunga che lo Spazio Maillet, circondato da un idilliaco giardino di bambù e antichi castagni, è situato in un interessante edificio costruito dall’architetto Dolf Schnebli poco dopo la realizzazione nel 1960 dell’innovativo Ginnasio di Locarno, concepito come “casa aperta”; diventerà poi insegnante alla prestigiosa Università di Berkeley e sarà nominato nel 1971 professore ordinario di architettura al Politecnico di Zurigo.
Devo dire che quando, pochi giorni fa, mi sono recato in visita al rinnovato atelier è stato come se un’onda di freschezza e di vitalità, ma anche di ricordi, mi fosse venuta incontro. Ho rivisto alle pareti alcuni di quegli acquerelli che avevo già visto in questo stesso luogo nel 1989, durante un’intervista – forse l’ultima da lui rilasciata e pubblicata poi su L’Eco di Locarno – fatta in coincidenza con la sua retrospettiva al museo di Mendrisio. Leo Maillet, oltre a essere stato un pittore espressionista, allievo nientemeno che del grande Max Beckmann, è stato un importante incisore, di indubbia maestria, che già nel 1927 aveva realizzato alcune incisioni del Mendrisiotto – esposte in quella mostra – durante il suo primo soggiorno in Ticino, negli stessi luoghi frequentati allora dai membri del Rot-Blau, strettamente legati a Ernest Ludwig Kirchner. Un soggiorno raccomandatogli dal suo medico per allontanarlo dal clima umido di Francoforte sul Meno dove era nato e viveva. Più tardi le difficoltà economiche dopo il crollo del ’29, l’ascesa del nazionalsocialismo e la condanna dell’“arte degenerata” e lo scoppio della guerra lo indurranno a riparare in Lussemburgo e poi a Parigi, quindi in Svizzera, dove arriva nel 1944, stabilendosi, dal 1962, a Verscio. Ricordo quanto mi diceva mentre insieme sfogliavamo quelle sue incisioni spesso caratterizzate da inquietanti distorsioni prospettiche, segnate da un velo di cupa amarezza, da addensamenti di neri e da grovigli di segni sferzanti: “La mia vita è legata alla storia dell’Europa. Io sono scivolato dentro questa tragedia, non l’ho voluta né cercata io. La mia vita e la mia arte sono l’espressione di questa storia e di questa tragedia”.
Non così gli acquerelli che vengono ora esposti, caratterizzati dalla liberazione del colore, da un pittoricismo mobile e fluidificante, dal dinamismo delle pose: per cui cantano tutt’altra musica, animata non di rado da una sottile e divertita ironia che talvolta si spinge fino al grottesco che “è la fuga dal dramma – mi diceva –per far nascere un riso amaro. È guardare con un’angolatura diversa, più distaccata, ma che fa vedere anche l’altra faccia”. Quella stessa modalità di guardare all’uomo e alla sua storia che nutre pure il clown, in questo caso Dimitri che, giunto a Verscio poco dopo di lui, inaugura il suo teatro e la sua scuola. Nasce allora uno stretto connubio tra il clown e l’artista il quale, munito di matita e carta da disegno, tra gli anni 1970 e 1980, segue gli spettacoli o le prove (fatte talvolta nel prato di casa sua) e prende rapidi appunti che sviluppa poi nel suo atelier nei coloriti acquerelli oggetto della presente esposizione. Erano gli ultimi anni della sua vita ma forse anche i più sereni, come sembrano suggerire queste sue carte dipinte dove, al posto dell’amarezza e dei neri, subentra la gamma vitale dei colori e le distorsioni si concentrano sulle buffe caricature che fanno un teatro sul teatro del genere umano. Un’umanità fuori dal tempo, un po’ medioevale un po’ moderna, un po’ umana e un po’ animalesca, di certo carnascialesca, con in testa strani cappelli, grandi tube ma anche coppole e galline, con in mano bastoni o pifferi, banjo trombe e sassofoni; un’umanità indaffarata a parlare, a discutere o a cercare ma non si sa cosa, che entra o esce di scena ma non si sa né da dove venga né dove vada, che si siede amorevolmente a chiacchierare contro un muro a secco, ma senza toccar terra, come sospesa nel vuoto.
Si direbbe che quest’ultimo Maillet, carico della sua lunga ma anche tragica esperienza di vita, guardi ora con un occhio benevolo e indulgente, ma non meno ironico, a questa altra umanità – memore delle maschere di Ensor – sinceramente ingenua e fin troppo indaffarata che suona, canta e balla alla ricerca di una felicità che le sfugge sempre di mano e forse non riuscirà mai a trovare.