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Al Musec sfilano i carri degli dèi

Un'esposizione curata da Giulia Bellentani propone 54 sculture indiane di carattere religioso

Dettaglio del matrimonio di Shiva e Parvati
(FCM/MUSEC, Lugano)
5 dicembre 2023
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“Come, credo, molti europei ideologicamente perplessi ho l’impressione che l’India sia un luogo ad alto tenore di Dio, una foresta che produce scimmie, pavoni e asceti; qui esistono ancora i Maestri, i Profeti, e quando si parla della Verità non si allude a un caso giudiziario, ma alla Verità totale, cosmica; ecco, l’India non sarà mica un paese cosmico? Per noi che di cosmico non abbiamo più niente, eccetto un po’ di astrologia settimanale, potrebbe essere un trauma intollerabile”: il visitatore che si recherà al Museo delle culture di Lugano, che nello Spazio Cielo di Villa Malpensata ospita la mostra ‘I carri degli dèi. Una tradizione millenaria che celebra l’arte e la spiritualità dell’India’ (aperta al pubblico fino al 10 marzo 2024), comprenderà lo stupore di Giorgio Manganelli di fronte all’acceso intuitivo, non mediato dalla ragione, a frammenti di verità offerto da questa esposizione, curata da Giulia Bellentani.

Si tratta di 54 opere, in parte selezionate dal patrimonio del Museo, che attinge alle collezioni Brignoni, Fumagalli e Riemschneider, in parte prestate da due istituzioni zurighesi, il Museo Rietberg e il Museo etnologico dell’Università. Delle sculture non conosciamo gli autori, rimasti anonimi per annullare l’Io e la sua vanità nel servizio reso alla fede, ma sappiamo che sono state realizzate per corredare carri religiosi che nel corso di una festa inverosimilmente affollata portano fuori dai templi, in mezzo ai fedeli, la divinità incorporata in una statua. Questo trasferimento dell’essenza divina, prelevata dalle statue conservate nei templi, è avvenuto in seguito a complicati e lunghissimi rituali. I carri, che all’interno contengono anche camere da letto per l’umanissimo riposo della divinità, all’esterno sono decorati con pannelli e altri manufatti che sembrano riprodurre ogni aspetto della vita (interiore ed esteriore: in India i due lati coincidono) e del rapporto dell’uomo con l’Assoluto. Quasi dei palinsesti enciclopedici, per ricordare che non esiste nulla che non possa essere toccato e magari cambiato dall’intervento di un dio.

Tracce divine in ogni cosa

Il pannello del matrimonio di Shiva e Parvati, ad esempio, è pieno di creature impegnatissime in misteriose azioni, e non c’è opera in cui lo sguardo non rischi di perdersi, tra miriadi di particolari: è come se in quella lontana cultura avessero deciso di fronteggiare il caos della vita scendendovi a patti, riproducendolo tale e quale, nel suo gaddiano intrico di concause, per ricomprenderlo entro il dominio della divinità (non potendo affidarlo alle limitate capacità della ragione) e renderlo così, se non addomesticabile, almeno accettabile, in previsione del gorgo in cui scenderemo muti, ma almeno non disperati.

E c’è qualcosa di divino anche nelle particolareggiate rappresentazioni di amplessi e orge, coiti che durano dalla notte dei tempi: è tale la ricchezza dei dettagli e talmente precisa la loro elaborazione, in queste figure serenamente e sfrontatamente indifferenti alle nostre sovrastrutture mentali e alla nostra pruderie, che è davvero difficile distoglierne gli occhi. Allo stesso modo, si rimane incantati da Krishna che suona il flauto con le caviglie incrociate, attraendo a sé animali, persone e nuvole, dalle pose dinamiche dei cavalli, dal dio a cinque teste, quasi un azzardo futurista alla Balla, dalla lotta impari del sovrano Hiranyakasipu con Narasimha, dio con otto braccia e il volto leonino: anche la conflittualità è una parte necessaria e ineludibile di quell’armonia che l’Occidente ha perduto, l’immagine di un legame tra il mondo, l’uomo e la successione ciclica del tempo: c’è armonia, anzi, persino dove regna un’apparente confusione.

Gioia e benedizione

Ma non bisogna dimenticare che queste sculture sono legate a momenti di festa: scriveva Umapati, nel XIV secolo, che “quando il Signore va in processione, i devoti provano gioia e versano lacrime di gioia. Mettendo da parte la beatitudine celeste, gli dèi desiderano venire alla processione di Shiva, e lodandola pregano a mani giunte. Le nuvole, che dormivano sui pini, si levano al passaggio della processione e aghi di pino cadono sui fiori sottostanti, versando miele come pioggia sulla strada di sotto. Il ronzio delle api nei fiori si mescola al cicaleccio degli uccelli in ogni direzione. L’assemblea dei fedeli cresce continuamente, e lacrime scorrono dai loro occhi come collane di perle”.

Queste occasioni, in cui il carro è come un tempio che gira tra i fedeli e il dio esce per un po’ dall’oscura immobilità in cui è confinato, sono definite ‘utsava’. Secondo un poema composto tra il V e il IX secolo, “Utsava è ciò che libera dalle loro pastoie le creature cadute nell’oscurità dell’ignoranza, e in tal modo determina la manifestazione del loro potere di conoscenza”: in tal modo previene le disgrazie, rimuove le sofferenze, porta prosperità al mondo, assumendo il significato, riportato nel dizionario sanscrito-italiano curato da Saverio Sani (ed. ETS), di festa, sagra, festività, giubileo, gioia, contentezza, felicità, apertura, fioritura, elevazione. Ed è anche, si legge nel catalogo della mostra (scritto da Giulia Bellentani con la prefazione di Francesco Paolo Campione, direttore del Musec), un’occasione per rinsaldare gli equilibri sociali, scandire il tempo e riordinare lo spazio, ribaltando la modalità d’incontro fra l’umano e il divino.