Appena riscoperto grazie a Charles Bukowski, l’8 maggio di quarant'anni fa si spegneva il più originale degli scrittori italoamericani
Il ventenne Charles Bukowski setacciava la Biblioteca pubblica di Los Angeles in cerca di qualcosa che fosse davvero originale, diverso da tutto ciò che fin lì aveva letto e che non lo aveva mai veramente soddisfatto. Un giorno si imbatté in ‘Chiedi alla polvere’ di John Fante, ed è così che – quarant’anni più tardi – descrisse quella specie di epifania: “Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino. Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso”.
Alla fine degli anni Settanta, ormai diventato un letterato di successo, Bukowski non aveva alcun dubbio nell’indicare in Fante il miglior scrittore che fosse mai esistito e quello che, su di lui, aveva avuto maggior influenza. Il problema era che chi lo intervistava quel nome non lo aveva mai sentito pronunciare, e per poterlo poi citare correttamente doveva chiedere al leggendario poeta ubriacone di fargli lo spelling. John Fante, infatti, dopo la pubblicazione di un paio di romanzi e qualche racconto alla vigilia della Seconda guerra mondiale, era presto piombato nell’oblio assoluto. Fu dunque soltanto grazie a Bukowski, che indusse il suo editore a ripubblicare tutti i vecchi libri di Fante, se oggi nel mondo intero si conosce e in certi casi si venera il romanziere italoamericano, classico caso di artista celebrato troppo tardi: devastato dal diabete, morì infatti solo un paio d’anni dopo, senza fare in tempo a godersi quel successo che in vita aveva tenacemente sognato, ma mai nemmeno sfiorato.
Fu con italianissimo sangue nelle vene – sua sempiterna croce e delizia – che John Thomas Fante era nato l’8 aprile 1909. Cresciuto a Boulder, nel Colorado, aveva però visto la luce a Denver – sempre ai piedi delle Montagne Rocciose – dove i suoi genitori si erano conosciuti un paio d’anni prima. Sua madre, figlia di italiani, era nativa di Chicago, mentre suo padre – venuto al mondo a Torricella Peligna – appena ventenne si era imbarcato per l’Argentina in cerca di una fortuna che però non riuscì a trovare. Dagli States, suo secondo tentativo con la sorte, aveva deciso che non sarebbe ripartito mai, comunque andasse: non avrebbe sopportato di tornarsene di nuovo in Abruzzo senza un soldo per farsi dileggiare dai compaesani.
La condizione di figlio di stranieri marcò a fuoco, oltre alla vita di Fante, pure la sua opera. Le origini esotiche e la povertà in cui crebbe lo resero da subito oggetto di discriminazione nell’Ovest americano di quell’epoca, che riteneva gli italiani sporchi, ladri, violenti e infidi. Vittime di questi pregiudizi, i migranti finivano per frequentare solo i propri connazionali, rendendo quasi impossibile la loro integrazione e assai difficoltosa quella dei loro figli, che pur essendo nati laggiù non riuscivano a sentirsi pienamente americani, benché fosse ovviamente la cosa che più desideravano. Come avrebbero mai potuto essere considerati al pari dei loro compagni anglosassoni, se mai veniva data loro – ad esempio – l’opportunità di mangiare hamburger e se i loro genitori, che conoscevano pochissime parole d’inglese, nel quartiere erano derisi e considerati selvaggi analfabeti spesso in ritardo nel saldare il conto del droghiere? A casa Fante si mangiavano infatti spaghetti a pranzo e cena, e il capofamiglia non faceva che sbraitare ordini nel dialetto natio e distribuire ceffoni allo sciame di figli che gironzolavano per quei due-tre locali minuscoli e riscaldati male.
Normale dunque che – per scansare altro dileggio – il piccolo John evitasse di invitare gli amici a casa sua e finisse per odiare la sua condizione e le sue radici, che lo facevano sentire inferiore oltre che diverso. D’altro canto, al tempo stesso, il ragazzino non poteva non ammirare suo padre, autoritario con moglie e figli, incredibilmente capace di reggere l’alcol, bravo come muratore e rispettato dalla cerchia di amici italiani che si era fatto nel giro di pochi anni. Fu dunque il rapporto ambivalente e schizofrenico col proprio Dna a caratterizzare, come detto, buona parte dell’esistenza e l’intera opera dello scrittore John Fante. Nel 1960, mentre si trovava a Roma chiamato da Dino De Laurentiis per scrivere alcune sceneggiature, in una lettera al figlio maggiore elencò tutti i peggiori difetti degli italiani ed esortò l’erede ad andar fiero soltanto del suo sangue inglese e tedesco, ricevuto dalla madre (‘Lettere 1932-1981’).
Praticamente tutti i suoi racconti e i suoi romanzi, infatti, sono un perpetuo tentativo – naturalmente fallito – di affrancarsi dal suo status di figlio di stranieri. Uno dei suoi protagonisti più ricorrenti – lo scrittore fallito Arturo Bandini – si sente gerarchicamente mille volte superiore ai messicani e ai filippini con cui lavora – inscatolatori di pesce – e fa pesare a quei poveracci, giusto un pelo più sfigati di lui, la sua nascita in territorio statunitense, ciò che farebbe di lui un autentico americano (‘La strada per Los Angeles’).
I suoi personaggi, fortemente autobiografici, sono dapprima ragazzini terrorizzati dal cattolicesimo – ma bravi nel baseball – che sognano di diventare giocatori professionisti per togliere i genitori dalle ristrettezze economiche in cui li hanno cresciuti, e che magari vendono la betoniera del padre muratore – unica fonte di introiti familiari – per comprarsi una bicicletta con cui raggiungere il campo d’allenamento delle squadre più prestigiose nella speranza di essere ingaggiati. In seguito, invece, quegli stessi mocciosi – accantonate mazze e palle – da giovani uomini immaginano, con la medesima determinazione, di diventare un giorno ricchi e famosi romanzieri, con schiere di donne bellissime e americanissime che strisciano devote ai loro piedi. Il tutto, naturalmente, condito da feroci e irrisolvibili conflitti familiari e generazionali, litigi furibondi, fughe da casa e ritorni contriti, blasfemia e lunghe sedute nel confessionale.
Dalle opere di Fante – che dato il ricorrere delle medesime tematiche possono in un certo senso essere considerate un unico lungo racconto – trasudano dunque disperazione e gioia sfrenata, rassegnazione e orgoglio indomabile, vergogna e rivalsa, sublime ironia, illusione e fallimento. Soprattutto fallimento letterario, e anche qui c’è parecchia autobiografia: pur apprezzati dai più celebri critici, infatti, i suoi primi libri si vendettero sempre col contagocce, forse perché troppo originali, spiazzanti, impossibili da etichettare e da aggregare a stili e correnti conosciute. Uno scacco che indusse John ad abbandonare ogni velleità artistica per riciclarsi nella macchina – assai remunerativa – delle sceneggiature hollywoodiane, che divenne la sua fonte di sostentamento in pratica per tutta la vita. Anche perché Joyce Smart, la sua moglie wasp, iniziò ben presto a dargli dei bambini, e dunque il bisogno di denaro si fece subito pressante. Le case di produzione, dunque, non gli dettero la fama che sognava, ma certo gli consentirono di abitare ville sempre più comode – addirittura lussuose – sulla costa di Malibu, dove allevava cani, buttava i figli piccoli in piscina ancor prima che imparassero a camminare e dove, con moglie e amici, consumava quantità notevoli di alcolici d’ogni risma.
Fante con la moglie Joyce e i figli
Letterariamente caduto nel dimenticatoio, Fante a Hollywood svolgeva un lavoro facile, ripetitivo, di nulla soddisfazione, una catena di montaggio a cui si vendette ma alla quale, almeno intimamente, mai si conformò. Il sogno di affermarsi un giorno come romanziere, infatti, non l’abbandonò mai. Il problema è che John era pigro al cubo, e dunque non sarebbe mai riuscito a operare su entrambi i fronti, dividendosi fra cinema e letteratura. Anche perché, una volta scoperto il golf, ne divenne schiavo: non ci fu un solo giorno della sua vita, almeno finché il diabete lo privò dapprima delle gambe e poi della vista, in cui prima di recarsi agli studios a scrivere non facesse un salto al più vicino club per allenare lo swing e il putt, se non addirittura per spararsi nove buche filate.
A ridare a John e alla sua opera nuova vita, come detto, fu verso la fine degli anni Settanta Charles Bukowski, che non sopportava di vedere il suo idolo giovanile (“Fante era il mio Dio, oltre che lo scrittore più maledetto d’America”) dimenticato da tutti. Hank non solo fece ristampare tutti i libri precedenti di Fante, ma gli fornì pure l’entusiasmo per rimettersi a scrivere e sfornare – ormai settantenne – alcuni nuovi capolavori. Ad ‘Aspetta primavera, Bandini’ (del 1938), ‘Chiedi alla polvere’ (1939) e ‘Full of life’ (1952), seguirono dunque dopo decenni di silenzio ‘La confraternita del Chianti’ (1977), ‘La strada per Los Angeles’ (scritto nel 1936 ma pubblicato postumo solo nel 1985 insieme a ‘Un anno terribile’) e soprattutto ‘Sogni di Bunker Hill’ (1982), romanzo strepitoso che pare scritto da un ventenne e che lui, ormai cieco e amputato di entrambe le gambe, fu costretto a dettare alla moglie Joyce. Finalmente riabilitato, John Fante – scrittore inclassificabile perché davvero unico – è morto esattamente quarant’anni fa, l’8 maggio 1983, in una stanza della Motion picture and television country house, clinica riservata ai grandi di Hollywood. E al suo fianco, oltre a Joyce, c’era il suo nuovo grande amico Hank.