Moriva trent’anni fa Charles Bukowski, scrittore maledetto e inimitabile, odiato da alcuni ma autentico autore di culto per più di una generazione
Nato nel 1920 ad Andernach (Germania) da padre soldato americano di origini polacche e madre tedesca, Heinrich Karl Bukowski raggiunse gli Stati Uniti tre anni più tardi, quando la presenza dell’esercito a stelle e strisce nell’Europa uscita dalla Prima guerra mondiale cominciò a diradarsi, ma soprattutto quando l’economia in Germania era così malmessa da indurre la famigliola a varcare l’Atlantico in cerca di condizioni migliori. Dopo qualche anno trascorso nel Maryland, il futuro scrittore di culto e i suoi genitori rifecero le valigie e puntarono ancora più a ovest, verso quella California in piena espansione che prometteva – e spesso manteneva – la realizzazione dell’American Dream. Raggiunta la costa occidentale, il ragazzino ormai undicenne, che faticava a sentirsi un vero yankee, provvide innanzitutto a mutare i propri spigolosi nomi teutonici nei più dolci Henry Charles.
Lettore appassionato dei classici russi e francesi, ma anche di Hemingway – che amava e odiava al contempo – coltivò fin da ragazzino la passione per la scrittura, ma senza fortuna. Tranne pochissimi racconti che trovarono spazio su marginali rivistine di settore, Bukowski, che fece mille mestieri e fu soprattutto un postino, non riuscì a pubblicare nulla di importante fin quando non ebbe una cinquantina d’anni: nel 1967 il giornale underground Open City propose a puntate il suo ‘Taccuino di un vecchio sporcaccione’, che ebbe un notevole successo e richiamò su di lui l’attenzione di editori più importanti. Fra questi c’era John Martin della Black Sparrow, che nel 1969 offrì a Charles cento dollari al mese per il resto della sua vita per convincerlo a lasciare l’ufficio postale, che gli toglieva ogni energia, e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Lui accettò, e fu così che il mondo intero ebbe in regalo capolavori come ‘Post office’, ‘Factotum’, ‘Storie di ordinaria follia’ e ‘Compagno di sbronze’, oltre a migliaia di poesie davvero singolari: tutta roba che fece di lui un autore davvero unico, impossibile da imitare, da replicare o da incasellare in qualsivoglia corrente letteraria.
Vicino ormai all’età della pensione, Bukowski si ritrovò, di colpo, annoverato fra gli scrittori di culto, e i suoi reading di poesie, che fin lì aveva tenuto davanti a una decina di persone al massimo, divennero happening per centinaia o addirittura migliaia di appassionati che non si lasciavano sfuggire l’occasione per andare ad assistere alle folli performance di quel poeta alcolizzato, blasfemo, amante del turpiloquio e delle scene di sesso, aspetto della vita da cui fu sempre piuttosto ossessionato. I dipartimenti di poesia e letteratura dei maggiori atenei, ormai, si contendevano Hank a fior di assegni sempre più sostanziosi pur di poterlo ospitare per una lettura nella loro aula magna o addirittura, vista la massiccia affluenza, nei loro palazzi del basket.
Hank è stato spesso accusato di misoginia, e avversato dunque dagli ambienti femministi, ma si trattava probabilmente soltanto dell’eccessiva amplificazione di un aspetto – quello appunto delle donne trattate male – che senza dubbio nella sua produzione letteraria non manca, ma va però detto che, nei suoi scritti, nemmeno i maschi vengono poi trattati troppo bene, anzi. Il sottobosco di umanità che popola le sue storie è formato in realtà da reietti, falliti ed emarginati di entrambi i sessi. Bukowski non faceva sconti a nessuno, a cominciare da sé stesso. Non è raro, infatti, che lo scrittore californiano parli di sé o dei suoi alter ego in modo assai spregiativo. Se nei suoi scritti c’è della violenza, e senza dubbio ce n’è, si tratta di una mancanza di rispetto distribuita in maniera molto trasversale.
Da adolescente, alla fine degli anni Trenta, Buk si dichiarava filonazista quando tutti si schieravano contro Hitler. È però assodato che lo faceva non per convinzione, ma soltanto per darsi un tono. Voleva farsi notare, intendeva in qualche modo diventare qualcuno, sembrare più cattivo di quanto non fosse, voleva apparire insomma come il ragazzo più duro del quartiere. Il quello stesso periodo, frequentò del resto pure gruppi di estrema sinistra, giusto per fare chiarezza. Era probabilmente una forma di riscatto personale per essere stato a lungo vessato ed emarginato negli anni della scuola per le sue origini germaniche – impiegò molti anni prima di perdere l’accento tedesco – e per via di una forma gravissima di acne che gli devastava non soltanto il visto, ma il corpo intero. Stanco di suscitare ripugnanza, voleva almeno essere temuto.
Del resto, giocare a fare l’anticonformista gli sarebbe piaciuto per la vita intera. Alcuni decenni più tardi, negli anni Sessanta e Settanta – nel pieno della stagione hippy – si professava per nulla simpatizzante dei figli dei fiori, delle loro droghe, dei blue jeans – che infilò per la prima volta e controvoglia alla soglia dei sessant’anni – e del rock. Hank infatti era un cultore della musica classica, con una particolare predilezione per Gustav Mahler. E tutto ciò è abbastanza paradossale, se pensiamo che il grande bacino dei suoi lettori e sostenitori – specie agli inizi – era costituito proprio dai seguaci di quell’area politica, artistica e filosofica che lui sosteneva di aborrire.
Croce e delizia, condanna e fortuna, la bottiglia è il vizio che ha accompagnato Bukowski per tutta la vita, e che in un paio di occasioni, quando era ancora piuttosto giovane, ha rischiato davvero di ucciderlo. L’alcol, come del resto la nicotina, era ingrediente immancabile pure della sua arte, non solo perché i personaggi delle sue poesie e della sua prosa sono spesso ubriaconi impenitenti – maschi e femmine – ma anche perché lui stesso aveva bisogno di bere anche mentre scriveva: se si fosse astenuto, infatti, non sarebbe riuscito a buttare giù nemmeno un verso.
Birra, vino e distillati furono per Hank anche una specie di kit di sopravvivenza: senza il loro aiuto, infatti, mai sarebbe riuscito a superare la timidezza e le inibizioni che gli impedivano una normale socializzazione e che lo paralizzavano prima dei reading o delle apparizioni televisive. A proposito, una volta in Francia esagerò: invitato nel prestigioso e compassatissimo salotto letterario di Bernard Pivot, iniziò a tracannare non appena cominciò la diretta, raggiunse un tasso alcolemico tale da non riuscire più a formulare nemmeno una frase comprensibile, vomitò a favore di telecamera e fu ovviamente cacciato dallo studio.
Scenario privilegiato della vita e dell’opera bukowskiana erano corse dei cavalli e ippodromi, che lo scrittore frequentava quotidianamente puntando su ogni brocco dal nome curioso, specie negli ultimi due decenni della sua vita, quando – non dovendo più lavorare sotto padrone e con turni rigorosi – poteva organizzare a piacimento le proprie giornate. Corse e scommesse erano passione e forma di relax, ma pure fonte di ispirazione per molti dei suoi racconti e per innumerevoli sue poesie notturne. Hank adorava e insieme detestava la variegata umanità che si aggirava fra botteghini, totalizzatori e tribune, specie i piccoli allibratori clandestini e le loro donne sfasciate dall’alcol. Molti individui che incontrava durante quei lunghi pomeriggi passati a studiare cavalli, a bere e a bruciare dollari finirono per essere traslati e ritratti nella sua opera. Come tutti i frequentatori di quei luoghi, anche Bukowski aveva ovviamente elaborato un suo ‘infallibile’ metodo per scommettere a colpo sicuro: non per vincere, ci mancherebbe – era infatti troppo scafato per illudersi di poter guadagnare quattrini coi cavalli – ma quantomeno per limitare le inevitabili perdite.
Scrittore assai prolifico, produsse moltissimi racconti, romanzi e poesie. Ma la sua opera avrebbe potuto essere assai più corposa, se fosse stato più ordinato e se gli editori, agli inizi della sua carriera, fossero stati più onesti ed educati. Molta della sua roba giovanile, infatti, è andata perduta: benché allegasse i francobolli affinché le case editrici potessero rimandargli i manoscritti nel caso – frequentissimo – non venissero apprezzati, ben poche volte ritornò davvero in possesso delle sue storie. E siccome non faceva mai copie di quanto produceva, il materiale andato perso non sarà mai quantificabile con precisione, ma di certo parliamo di molte pagine, probabilmente nell’ordine delle migliaia.
Nei primi anni 80, Bukowski ebbe fra l’altro l’enorme merito di rilanciare John Fante, che aveva idolatrato in gioventù ma che era in seguito caduto nel totale oblio. Hank convinse il suo editore a ripubblicare l’opera omnia del portentoso romanziere italoamericano, il quale conobbe così una seconda vita artistica – si rimise infatti a scrivere malgrado il diabete l’avesse ormai reso cieco e amputato di entrambe le gambe – divenendo a sua volta autore di culto in quasi tutto il mondo.