Tra le opere di Galleria Borghese per la mostra ‘Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento’, e la meraviglia del Canova.
Eravamo a Roma per inseguire una mostra ‘Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento’, che ha chiuso i battenti da pochi giorni alla Galleria Borghese, gioiello tra i tanti della capitale italiana. La mostra ha lasciato in eredità il bel catalogo edito da Officina libraria, con introduzione di Francesca Cappelletti e interessanti e importanti saggi e testi, tra cui quelli di Piers Baker-Bates e Patrizia Cavazzini. Uno studio che parte dal lavoro del pittore veneto Sebastiano del Piombo, ossia Sebastiano Luciani detto poi, in tarda età, Sebastiano del Piombo, nato a Venezia si suppone nel 1485 e morto a Roma il 21 giugno 1547.
Sebastiano del Piombo, forse già prima del Sacco di Roma del 1527, elaborò la tecnica della pittura a olio su pietra: "Conscio di stare resuscitando una pratica antica, citata da Plinio". Questa invenzione si affermò come risposta alle terribili devastazioni dovute al saccheggio della città: "Pittore e committenti si illusero infatti che la pietra, al contrario delle fragili tele e tavole, avrebbe conferito immortalità alla pittura".
Oltre 60 le opere provenienti da musei italiani e stranieri e da importanti collezioni private erano messe in mostra, ben ordinate tra le collezioni stabili della ricca Galleria Borghese. Queste opere si distinguevano per la luce e la texture particolari. I dipinti su pietre scure (pietra di paragone, lavagna o marmo belga) sfruttano il nero del supporto per ambientare scene notturne e per far risaltare le finiture dorate, i fondali offerti invece dalla pietra paesina e la preziosità di supporti come il lapislazzulo, usato per il mare e il cielo, vengono esaltati dall’intervento dell’artista. E sono usati anche i metalli, tutti supporti figli di una scelta per regalare eternità a un’arte fragile come la pittura, vittima di incendi e saccheggi, offesa spesso dal tempo e dagli eventi atmosferici. Ed ecco l’Adorazione dei magi (1600-1620) su alabastro di Antonio Tempesta o la Madonna con il Bambino e San Francesco (1605 c.) di Antonio Carracci dipinta su rame, il Ritratto di Filippo Strozzi (1550 c.) di Francesco Salviati, su marmo africano, quello di Cosimo de Medici (1560 c.) attribuito al Bronzino, su porfido rosso; o ancora il Ritratto di Papa Clemente VII con la barba (1531 c.) di Sebastiano del Piombo su lavagna.
E se alla Galleria Borghese si racconta di Eternità, questa si affaccia anche sulle tante opere qui stabilmente esposte e pensiamo all’eterno monito che offre un’opera straordinaria come ‘Il ratto di Proserpina’ di Gian Lorenzo Bernini, Plutone il dio fiero e insensibile sta trascinando Proserpina nell’Ade. Si resta esterrefatti di fronte alla reale violenza che esprime questa magnifica opera: Plutone è il maschio violentatore e altero, Proserpina è tutte le donne stuprate, è l’eternità di un destino che il Bernini fissa e fa cantare con amara canzone. Già nel mito, la madre di lei, Cerere, chiede giustizia a Giove per questo immane delitto e qui il Bernini fa sentire il dolore materno, in questo carnale offenderne il senso in nome di una sprezzante e vigliacca sessualità. A mille e mille i telefonini tentano di carpirne un’immagine senza sguardo; la responsabile della grande sala dove quest’opera potente è esposta ci chiede perché il chiassoso pubblico fotografa, ingoia quell’immagine ma non la guarda veramente, la sfugge. Pensiamo alla paura intima che impone questa scultura, dove un uomo e una donna perdono in modo diverso la loro umanità.
Ancora violenza nel rapporto donna-uomo il Bernini sviluppa in un altro capolavoro qui presente: quell’Apollo e Dafne, mito nato dalla favola di Ovidio tratta dalle Metamorfosi, con entrambi i protagonisti a essere vittime di una vendetta di Eros. Lui colpito dal dardo d’oro che lo fa invaghire della ninfa Dafne, lei da uno di piombo che lo allontana da lui trasformandola in albero d’alloro. Ed è questo momento che il Bernini coglie: il dio poggia la mano sinistra sul corpo di Dafne, lei ha già piedi in radici e le mani e i capelli in fronde. Un orrore che lo scultore fissa nei due volti dei protagonisti.
Camminando ancora tra opere importanti di Caravaggio, Raffaello, Tiziano, il mio amato Giovanni Bellini e tanti altri, finalmente arriviamo nella sala dedicata a lei, che la luce vivida di un pomeriggio che muore tra i colli di Roma accarezza.
Lei è la bellissima ed emozionante Paolina Bonaparte, scultura eseguita dal veneto Antonio Canova a Roma tra il 1804 e il 1808. C’è in questo ritratto in marmo, non solo la bellezza di una donna, Paolina Borghese Bonaparte (1780-1825), ma l’eterno femmineo. Distesa su due cuscini e un morbido materasso, le spalle e il seno nudi, il suo etereo viso sembra guardare il nulla, fermando il cammino della vita.
E noi ci perdiamo con lei.