A inizio ottobre si è svolta la Biennale svizzera del territorio. Proponiamo un resoconto partendo dal ‘non finito’ fino all’ecologia del respiro.
Dal 6 all’8 ottobre si è svolta per la quarta volta la Biennale svizzera del territorio, simposio organizzato dall’Istituto Internazionale di Architettura. Molto è cambiato dal 2016, anno della prima edizione. O forse nulla di per sé è cambiato, perché le crisi che ci preoccupano erano nell’aria da tempo. In questo senso, non sono cioè una novità: è la nostra percezione a essere cambiata, è il momento di cambiare. Un cambiamento testimoniato anche dai numerosi input – conferenze, tavole rotonde, film, passeggiate e molti altri interventi dei circa 80 ospiti – offerti a un pubblico attento. La tre giorni non ha fornito solo nutrimento intellettuale, perché per Ludovica Molo, direttrice dell’Istituto, è centrale anche la "convivialità" (termine coniato dal filosofo Ivan Illich) nel senso dello stare insieme. Nell’organizzazione dell’evento – cinque i curatori – a cibo, passeggiate, musica e scambi informali è stata prestata la stessa attenzione riservata al programma vero e proprio, quest’anno più denso che mai. A ciò hanno contribuito anche nuovi formati come la "Call for Action" e la "Call for Pecha Kucha", rivolta alla generazione più giovane. Sette le "azioni" selezionate (tra le settanta presentate) e realizzate, a integrazione delle conferenze degli ospiti invitati: per un mese sarà possibile visitare nella Limonaia di Villa Saroli la mostra (lunedì-venerdì, 12-17, giovedì chiuso) che raccoglie tutte le proposte, insieme alle installazioni realizzate nel Parco di Villa Saroli.
Dopo l’apertura del simposio giovedì sera al Teatro dell’Architettura di Mendrisio-Usi con una tavola rotonda sul tema della Biennale, "(non)finito", l’evento si è trasferito nella sua sede tradizionale di Lugano. I partecipanti hanno preso parte a una passeggiata dal Lago di Muzzano al lungolago di Lugano. Le soste hanno permesso all’architetto Marco Del Fedele e ai due architetti paesaggisti Federico De Molfetta e Hope Strode di parlare del percorso previsto per collegare l’area intorno al piccolo Lago di Muzzano, che fa parte della rete urbana, con la città vera e propria.
Sebbene il motto "(non) finito" lasciasse ampio spazio all’interpretazione, molti interventi hanno trovato un orizzonte comune: le risorse, la conservazione, la cura, l’apertura, la trasformazione e la collettività. Termini accomunati anche da un cambiamento di paradigma nella comprensione del ruolo degli architetti.
L’architetto indiano Anupama Kundoo ha contrapposto le risorse naturali materiali e la loro finitezza all’infinità delle risorse umane. L’abbondanza di competenze umane – e con questo intendeva soprattutto l’artigianato – dovrebbe essere maggiormente valorizzata. Forse l’accelerazione di molti processi ci mostra che dovremmo prenderci più tempo, non solo in architettura. A suo avviso, l’autorialità collettiva e il "pensare con le mani" sono temi che dovrebbero essere più radicati nell’insegnamento, perché pratica e teoria sono interdipendenti.
Sul finire del pomeriggio, il contributo della filosofa francese Marielle Macé si è trasformato nella conclusione (illuminante) della giornata. Le sue riflessioni sulle parole "respirer" e "conspirer" (respirare e cospirare, o respirare con) sono partite dall’osservazione di un "monde abimé" (mondo danneggiato), che ha richiamato l’attenzione sull’assenza di respiro del nostro tempo. Ha fornito una lettura della respirazione come partecipazione fondamentale al mondo, collegata al diritto di respirare. È proprio questo a essere minacciato nell’epoca dell’Antropocene o di fronte alla pandemia. La filosofa ha anche sottolineato la dimensione politica del processo di respirazione, o meglio della sua interruzione: le parole "non riesco a respirare" sono diventate un simbolo dell’ingiustizia con cui un sistema di sfruttamento tratta le persone che non rientrano nello schema culturale ed economico (pre)dominante. Cosa può imparare l’architettura da questo? Che l’ecologia è più di una questione materiale o tecnica, o che anche l’aria è un materiale di cui gli architetti devono prendersi cura. Macé ha invocato un’ecologia politica del respiro. La parte ufficiale della serata si è conclusa con un filmato sull’utilizzo di edifici incompiuti da parte della scena skater in Sicilia.
La giornata successiva ha ampliato ulteriormente il tema della Biennale e ha portato molti sguardi inaspettati nella Sala Cattaneo del Consolato Generale d’Italia, vicino all’Istituto. Tra le diverse presentazioni menzione speciale ai "regards croisés" di Milica Topalovic (docente al Politecnico di Zurigo) e Mirko Zardini (architetto, curatore e autore). Il contributo di Topalovic ha affrontato il tema dell’agricoltura e ha dimostrato che anche il "lavoro sul campo" dovrebbe far parte delle attività e dei campi di pensiero dei futuri architetti e architette. Una possibile soluzione alla problematica agraria, consisterebbe nel portare più agricoltura in città. Ancora più importante sarebbe proteggere il terreno come tale, anche con la legge. L’unica possibilità per affrontare i cambiamenti climatici e le rispettive sfide, non è data dall’industria agraria ma dall’ecologia agraria.
La brillante presentazione di Mirko Zardini ha mostrato come l’immagine del paesaggio possa essere uno strumento per comprendere il cambiamento in quanto tale. Ha tracciato una storia delle crisi e ha fatto riferimento alle dimenticanze dell’uomo. Oggi, però, non possiamo più permetterci di tornare alla normalità quando la crisi sarà "finita". L’architettura ha un ruolo importante da svolgere in questo senso: può aiutare a formulare i problemi e a prepararsi a essi.
Il nuovo cambio di location ha portato movimento all’interno dell’evento. L’incontro, moderato dall’architetto e urbanista Charlotte Malterre-Barthes, ha messo in discussione l’idea di cura e ha dimostrato il potenziale di questo semplice concetto e quanto sia necessario agire. Dopo un’introduzione, i partecipanti sono stati invitati a prendere una sedia pieghevole e a seguire il gruppo. A seguito di una passeggiata, tutti si sono ritrovati sotto l’infrastruttura coperta in Via Lambertenghi. Qui, con pochi interventi, è stata creata un’area per l’ultimo talk della Biennale.
Dopo una cena nel parco, sono seguiti i due happening finali. La proiezione del film si è rivelata una "passeggiata audio" ideata dal team Bassire Winter Wülser nella Lugano notturna, in cui il film si è virtualmente svolto nella testa dei partecipanti. Estremamente coinvolgente, è stato accuratamente pensato nella scelta delle location ed eseguito professionalmente in termini di realizzazione tecnica. A Villa Saroli, un filmato di Aline D’Auria e una performance live del musicista Francesco Giudici hanno portato il pubblico nel mondo dei lupi.
È raro che un evento architettonico sia così stratificato e diversificato. La Biennale Svizzera del Territorio celebra proprio con questa abbondanza la capacità dell’architettura di rimanere in costante movimento.
(L’articolo integrale è apparso sul sito www.swiss-architects.com).