Al Museo comunale d’arte moderna di Ascona un’antologica sull’iconica artista statunitense da domani all’8 gennaio ’23. Ma si inaugura oggi alle 17.
Il mio modo di pensare è il collage.
Sigaretta fra le dita, sguardo fisso e frontale: la posa è – iconograficamente – ieratica e mi ricorda anche il vecchio pezzo da cinquanta con Sophie Tauber-Arp (ma l’associazione è solo mia, sarà per il copricapo da cavallerizza, in questo caso). È il 1974, e la fotografa Lynn Gilbert ritrae Louise Nevelson per la Pace Gallery di New York: lei ha 75 anni ed è un’icona. Sì, perché è una delle più grandi rappresentanti dell’arte del XX secolo, anche se il riconoscimento è tardivo, nonostante sin da bambina, Nevelson sia consapevole della sua predestinazione all’arte (un talento innato). Lo sostiene in più occasioni, come nell’intervista raccolta da Gilbert: "Sapevo di essere dotata, di avere energia".
"Ho fatto dell’arte la linea guida della mia vita", dice ancora alla fotografa, fino a che l’arte è diventata la vita stessa, un’unica dimensione in cui fra individualità e fare artistico non c’era distinzione (si dice che lavorasse sempre). La caratterizzava anche un forte senso della specificità femminile che ha cristallizzato in una delle sue dichiarazioni: "Mi sono sempre sentita donna, molto donna. Il mio lavoro può sembrare vigoroso, ma è delicato… in esso c’è tutta la mia vita e tutta la mia vita è femminile, io lavoro da un punto di vista completamente diverso. Il mio lavoro è la creazione di una mente femminile, non c’è dubbio. Il mio modo di pensare trascende il concetto tradizionale di quello che rende il femminile opposto al maschile".
Artista colta, di grande complessità, granitica nella sua visionarietà, Nevelson non è assimilabile a una corrente artistica: se il suo fare arte ha quale fondamento l’assemblaggio (un lavoro per certi versi artigianale), di riflesso lo ha anche la sua natura artistica, il cui linguaggio pesca da scultura, incisione, disegno, collage e dai loro maestri.
Ma partiamo dal principio, dando riferimenti biografici. Louise, anzi Leah Berliawsky nasce nei paraggi di Kiev il 23 settembre 1899, è secondogenita di quattro figli. Ancora bambina con la sua famiglia emigra negli Stati Uniti, nel Maine, dove il padre trova lavoro nel campo del legname. Nonostante non fosse nei suoi piani (perché lo era l’arte) si sposa nel 1920 con Charles Nevelson, da lì prende il nome di Louise Nevelson. Trasferitasi a New York con il marito, inizia a studiare disegno, pittura, canto, e arte drammatica. Conosce fra gli altri Frederick Kiesler – che la introduce all’avanguardia cubista– e la principessa Norina Matchabelli: entrambe le personalità si riveleranno fondamentali per la sua formazione. Rimane incinta, ma vive la maternità come un evento negativo, perché non era intenzionata ad avere figli. Sul finire degli anni Venti, frequenta la Art Students League con Kenneth H. Miller. Là, matura l’intenzione di andare in Germania e seguire i corsi di Hans Hofmann a Monaco; cosa che farà. Rientrata a New York, lavora come assistente del celebre muralista messicano Diego Rivera. Nel Trentatré, Louise apre il suo studio, dove espone i suoi primi lavori. A inizio anni Quaranta, divorzia dal marito per potersi dedicare completamente all’arte e inizia a esporre in mostre collettive, come quella dedicata alle artiste d’avanguardia dalla galleria Peggy Guggenheim. A cavallo dei decenni 40 e 50, studia incisione con Stanley William Hayter all’Atelier 17, che si rivelerà decisivo nella concezione del suo linguaggio espressivo unico. L’approdo in Europa è possibile grazie alla lunga collaborazione con la Martha Jackson Gallery, intessuta in quegli anni.
Procedo spedita, rimandando agli innumerevoli approfondimenti esaustivi: a Parigi, nel ’60, tiene la sua prima personale che suscita molto stupore e così due anni dopo espone alla Biennale di Venezia, nel padiglione degli Usa. Il decennio successivo, centrale è la mostra presentata personalmente a Milano nel 1973, allo Studio Marconi (con cui inizia a collaborare), dove allestisce ottanta opere dal 1955 al 1972. Con un passo ancora, arriviamo agli anni Ottanta, periodo in cui la Nevelson, nonostante l’enorme fatica iniziale, è un’artista celebre e conclamata a livello internazionale. Il 17 aprile 1988, l’artista muore nella sua città, New York.
Arriviamo all’occasione che ci ha permesso di abbordare questa affascinante figura della storia dell’arte. Ovvero l’allestimento della prima antologica a livello istituzionale in Svizzera ‘Assembling Thoughts’ (titolo-manifesto) dedicata dal Museo comunale d’arte moderna di Ascona all’opera dell’artista Louise Nevelson, in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano. Ad Ascona, incontro le due curatrici Mara Folini e Allegra Ravizza che mi introducono all’esposizione, che sarà visitabile da domenica 2 ottobre fino all’8 gennaio 2023; l’inaugurazione invece è in calendario oggi, dalle 17.
Prima di addentrarmi nel percorso espositivo con il supporto delle mie guide, tento di dare alcuni riferimenti – grazie in particolare al testo critico di Bruno Corà, ‘Louise Nevelson. Collages e sculture dagli anni cinquanta agli anni ottanta’ – circa il suo percorso espressivo e la genesi del suo linguaggio artistico, che non sono incastrabili in etichette.
Disegno, pittura, scultura (anche monumentale in cui "valorizza vuoti e cavità"), collage dal gesto spontaneo, incisione sono tecniche in cui si è provata Nevelson lungo una sessantina di anni. Peculiarità del suo linguaggio sono l’assemblaggio, la ricerca del materiale erratico e di recupero (in particolare ligneo), la monocromia. Con l’accostamento di decine, centinaia e migliaia di oggetti poveri e abbandonati (ma carichi di memoria) "ricostruisco il mondo smembrato in una nuova armonia" e "quando lavoro non cerco la perfezione, cerco la vita", ha affermato l’artista stessa in occasioni diverse. Così frammenti di carta, pizzi, cassette, pennelli, gambe di sedie e tavoli, cornici, scaglie, cilindri in legno diventano reperti (quand’anche "reliquie") che, dipinti di nero (poi anche bianco e oro), ricostituiscono "l’unità perduta", dando loro una nuova vita e un nuovo significato attraverso veri e propri monumenti plastici pluriprospettici. "La riflessione sul vissuto e sulla memoria assume uno degli aspetti centrali della sua opera; nella quale, insieme alla elaborazione della forma e dello spazio, si evidenzia il tempo, con tutte le sue dimensioni". La monocromia allora permette all’artista di omogeneizzare le forme, scrive Corà. Gli oggetti sono "assemblati tra loro e resi uniformi da un unico colore" che, nonostante dia l’impressione di annullare le forme, "in realtà ne omologa le differenze". Il nero in particolare non è percepito dall’artista come negazione, ma come somma di tutti i colori, come origine e fine, pigmento purificatore e di rigenerazione, capace di esaltare le sue gamme, le sue ombre: dal nero senza fine a superfici percepibili quasi come bianco.
Eccoci ad Ascona. L’intento dell’esposizione che si dipana in una manciata di sale è didattico, al fine di dare una visione della vita e delle opere dell’artista statunitense, dell’evoluzione del suo pensiero creativo, dando gli strumenti per approcciarsi e godere dell’ottantina di opere emblematiche ed evocative che sono esposte nelle sale del museo. Lo si potrebbe definire un colpaccio: Nevelson, come già scritto, è una fra le più grandi artiste del secolo scorso e poter ammirare alcune delle sue opere a pochi passi da casa, senza inutili giri di parole, è proprio un’occasione da non perdere. «La mostra è nata dall’incontro con Allegra Ravizza che l’ha proposta al nostro museo, lo scorso giugno», ricorda la co-curatrice Mara Folini, aggiungendo che questa si inserisce nel solco dell’opera di valorizzazione che la Fondazione Marconi di Milano sta portando avanti da tempo a questa parte con alcune mostre, come quella allestita nell’arsenale e appena conclusasi alla Biennale di Venezia e dedicata alla produzione di collages.
L’esposizione asconese parte «dai disegni degli anni Trenta, che hanno valore documentale, nei quali è possibile vedere già la tensione all’assemblaggio, partendo da volumi più pieni del corpo femminile fino ad arrivare a una sintesi geometrica e astratta nel movimento. Opere dalle quali emerge (oltre a una propulsione cubista; ndr) la vicinanza con la danza: bisogna pensare che in quel periodo Louise prendeva lezioni dalla coreografa Martha Graham, dove il movimento è fulcro ed espressione sintetica dei sentimenti più profondi attraverso il gesto esemplare. La danza e i viaggi in Africa e nelle regioni precolombiane sono ulteriori punti di riferimento nella ricerca di un suo linguaggio distintivo e autosufficiente, che si autodetermini».
La sua peculiare interpretazione della scomposizione cubista, spiegano nel foglio di sala le curatrici, torna altresì nelle opere grafiche degli anni Cinquanta, fino a "radicalizzarsi nella plasticità monumentale delle sue sculture dipinte di nero". Dalla serie di sculture lignee nere della seconda sala, la mostra si apre quindi sul nucleo intimo e mai esposto dalla Nevelson finché era in vita, ovvero i collages che occupano gli spazi successivi. Si tratta di opere che attraversano circa un trentennio, dalla cui osservazione emerge – illustrano – il carattere sperimentale degli assemblaggi, una sorta di laboratorio in cui esprimere idee, tecniche, usare i materiali più disparati. I collages sono il manifesto della vasta gamma espressiva di Nevelson, "un linguaggio – scrivono le curatrici – all’insegna della piena libertà espressiva e compositiva".
Rimandi per approfondimenti: www.museoascona.ch/it; www.louisenevelsonfoundation.org; www.fondazionemarconi.org/it.