Dalla sala ‘Eden’, trasportati dalla vellutata voce di Peggy Lee, incontriamo Giulio Rossini che racconta l’avventura del cinema diffuso di Varese
Si scava. Si scava nella memoria, nei ricordi. Nella casa dove abitiamo ci sono alcune possibilità di ricerca. Scavare in basso e in alto; cantina, solaio. Ogni tanto inseguiamo oggetti dimenticati dentro scatoloni assiepati nel buio, un humus che durante la nostra assenza ha messo in essere un mondo a sé, nuovi confini. Basta scendere più a fondo, immergersi nel sottosuolo dove la vita segue altri tempi e ragioni, allora incontriamo uomini e donne che vivono nell’ombra da molti anni. Ricordate, ‘Underground’?
In cantina, la piccola finestra che sporge sul prato di casa permette a qualche fascio di luce di posarsi su delle scatole piene di riviste. Sfiorandole, tocco per caso una cassetta Vhs ed ecco i volti di Sterling Hayden, Joan Crawford, Mercedes McCambridge. È ‘Johnny Guitar’, cult movie di Nicholas Ray. Western barocco, melodrammatico e noir, con due figure femminili che si combattono senza esclusioni di colpi. Famosa la colonna sonora cantata da Peggy Lee. Ecco l’inizio: "Play the guitar, play it again, /my Johnny...". Sui ‘Cahiers du Cinéma’, Jean-Luc Godard, scrive: "Ecco qualcosa che esiste solo attraverso il cinema, ecco qualcosa che sarebbe nullo in un romanzo, sul palcoscenico, in qualsiasi altro posto, ma che sullo schermo diventa fantasticamente bello". Nicholas Ray riceverà nel 1979 l’intenso omaggio di un giovane Wim Wenders. Titolo, ‘Lampi sull’acqua’. Gravemente malato, quasi cieco, Ray si consegna allo sguardo del regista tedesco; prende corpo una testimonianza sul senso della vita e dell’amicizia, sul costruire storie e sul cinema in sé. Fino agli ultimi istanti.
Dopo la sala ‘Eden’ di Carpi, un piccolo viaggio mi porta a Varese. Giulio Rossini, diverse esperienze nel giornalismo, ha sviluppato in più di trent’anni un progetto aperto al territorio che parla di cinema. Il cinema è nelle vene di Giulio, che racconta l’associazione culturale Filmstudio 90 senza interruzioni e a un certo punto ti chiedi quante cose e persone siano ruotate intorno a un modo di proporre il cinema tornando ai suoi maestri, seguendo nuove tendenze, mettendo in essere rassegne che parlano di ambiente e socialità. Perché la storia di questi schermi bianchi, i proiettori, i registi e gli attori, è come se volassero intorno alla cabina di regia che sta di fronte a noi. Allora, quando alla fine ti alzi, pensi che il cinema nella sua essenza resiste nonostante tutto e che rilanciare, trovare alleanze, uscire dalla sala, sia un punto distintivo del progetto.
È il ‘cinema diffuso’. L’inizio? «Il gruppo che ha dato il via alla nostra associazione, amici, fidanzate, era appassionato di cinema. A un certo punto ci siamo sentiti orfani di una situazione che in città cambiava con la chiusura delle due sale di riferimento». Quali? «La sala d’essai Mignon, ex Centrale, aperta anche al mattino e luogo di molte bigiate. E la sala dell’Università Popolare che aveva portato il cinema di qualità, i classici della storia del cinema la domenica mattina. Ore dieci, messa laica. Uno dei promotori era Chino Gandini, critico de ‘La Prealpina’ che redigeva le schede, animava gli incontri». Quindi, due vuoti. «Per questo ci siamo rivolti all’Arci e là nascono le prime iniziative; visto che la cosa funzionava, dopo un paio d’anni abbiamo pensato di fondare l’associazione. Erano gli anni giusti, resisteva forte l’immagine del cinema come battaglia delle idee». Il posto? «Siamo stati ospiti di una struttura di formazione, in via Uberti, aula magna, proponendo dei cicli. Uno sulla pace e la guerra, un altro sull’ambiente e poi cinema e disabilità. Collaborando con il Comune di Varese nasce l’esperienza ai Giardini Estensi che continua tuttora: ‘Esterno Notte’».
Il cinema aveva la capacità di parlare alla gente. «Per questo organizziamo i primi cineforum al Rivoli, già Gloria, diventato a un certo punto cinema a luci rosse, proponendo ‘Cinema Città’, in collaborazione con l’Amministrazione comunale. La qualità in una sala che faceva luci rosse...». In seguito? «Nel ’93, l’occasione di uno spazio in via de Cristoforis; l’abbiamo ristrutturato iniziando il primo cineclub stabile nella sede di una cooperativa. Molte cose sono cambiate, ma lo spirito che ci anima è lo stesso». Tenendo fermi alcuni valori. «Continuando il percorso dal punto di vista del volontariato senza guardare l’incasso economico. L’obiettivo per noi è il pareggio dell’attività. Cerchiamo di rendere sostenibile la qualità del lavoro, le scelte, facendo bandi, lavorando a fondo con gli enti locali anche a livello di partnership».
I classici? «Un tema importante ma non semplice. C’è solo un pubblico piuttosto âgé che segue questi film, insieme a qualche giovane che studia Cinema. E devi presentare il film più famoso di un dato autore. Sono cresciuto all’Obraz Cinestudio di Milano con Enrico Livraghi, grande promotore culturale che sosteneva questo concetto. Di Bergman non devi proporre i film meno conosciuti, ma proiettare ‘Il settimo sigillo’, diversamente la gente non viene. Se fai Godard, segui lo stesso metro, proietti ‘À bout de souffle’. Creando dei piccoli eventi. In questo senso anche la Cineteca di Bologna con tutto quello che la città rappresenta, movimenti, il Dams, su alcuni titoli, fatica». Poco distante da noi, il Cinema Teatro Nuovo. «Abbiamo preso in gestione la sala nel 2006 perché non la voleva nessuno, modificandola un po’, utilizzando delle poltroncine che venivano dal ‘Brera’ di Milano. Quando a Varese ha aperto la multisala, le monosale hanno chiuso. Con il cineforum tradizionale del martedì e del mercoledì, riusciamo ad avere un discreto pubblico in due giorni feriali solitamente deboli per il cinema». I prezzi sono contenuti. «Cerchiamo di tenere dei prezzi bassi per favorire le fasce deboli. Con l’abbonamento paghi tre euro a film». Filmstudio 90 cerca di andare verso i gusti del pubblico e i bisogni lasciati inespressi. «Con l’acquisto di un camper, ‘Movie Rider’, il cinema è arrivato nei quartieri. E la rivista ‘cinequanonline’, consente di approfondire, discutere di cinema». Guardare un film da solo, a casa, è triste, la sala è vita. Le piattaforme risucchiano, «per questo – prosegue Giulio – occorre fare una battaglia di retroguardia. Questi saranno anni cruciali per vedere se il cinema riuscirà a tenere come è per il teatro».
Sul tavolo della piccola sala, vedo un libricino bello e interessante, i trent’anni di questo percorso raccontati da diverse firme varesine. Prima di uscire, su un angolo alcuni scatoloni pieni di Vhs. Che ‘Johnny Guitar’ sia arrivato fino a qui?