A Lugano, tra esplorazione della poetica e produzione artistica, una mostra interamente a lui dedicata (fino al 26 febbraio 2023)
«Fra trent’anni non ci saranno più i musei delle culture, i musei d’arte, di scienza e tecnica, si avranno soltanto musei. Il processo di globalizzazione in corso è talmente intenso da non permetterne più l’esistenza. In questo vinceranno, o perlomeno permarranno, i musei che saranno stati in grado di adottare una prospettiva peculiare. In questo atto museologico, noi guardiamo qualsiasi genere d’arte attraverso il cannocchiale della ragione della creatività. Chiediamo all’artista o – qualora ciò non fosse più possibile – interroghiamo le fonti, sulle ragioni del processo artistico». Così ci parla Francesco Paolo Campione, direttore del Musec e amico, nonché compagno di riflessioni, di Roberto Ciaccio dalla prima metà degli anni Novanta, a proposito dell’ottica nella quale si inserisce questa personale.
«Si tratta di un allestimento raffinato, nella penombra, silenzioso. Sembra suggerire l’enigma al quale risale l’opera d’arte», commenta Maria Pia Ciaccio, fondatrice dell’Archivio Ciaccio e consorte dell’artista. «L’ombra è qualcosa di meraviglioso e fondamentale in questa mostra, non è né oscurità, né luce, sta in limine, cela e rivela». D’altra parte, è proprio «l’indagine del mistero dell’origine tra il continuo celarsi e mostrarsi della figura oltre l’immagine», come si legge nel catalogo della mostra, ad aver mosso la creatività – e prima ancora l’ingegno – dell’artista nella sua produzione. «L’origine, uno dei valori fondamentali sui quali si sono interrogate sia l’antropologia che la filosofia, era l’ossessione dell’artista al quale è stata dedicata questa mostra, un quesito con il quale si è costantemente confrontato, prima filosoficamente e poi nella sua produzione artistica», aggiunge Campione.
© Archivio Roberto Ciaccio
Roberto Ciaccio - Memoria dell’acqua, 2013. Rame con ossidazioni e acidazioni
«In questa mostra c’è molto amarcord che si mescola all’arte e alla filosofia. Queste sono probabilmente le tre parole chiave di questa mostra: ricordo, arte e filosofia. Ricordo perché si tratta di un’esposizione che vuole onorare la memoria di Roberto Ciaccio, realizzata da chi l’ha amato», continua Campione. «Il fatto che manchi l’artista non significa che non si faccia più nulla. La sua opera permane e vive attraverso di noi. Ci siamo dunque impegnati creando l’Archivio Ciaccio, dando tuttavia precedenza alle sue opere e approfondendo il suo pensiero attraverso questo allestimento, piuttosto che al lavoro puramente archivistico», ricorda Maria Pia Ciaccio. «Si tratta poi di un’arte che fa del monotono e del monocromo la sua vocazione», continua Campione. «C’è una ricerca artistica monocroma, un gioco di forme seriali e singole» aggiunge Carsten Juhl, direttore del dipartimento teorico della Reale Università di belle arti di Copenaghen dal 1996 al 2016. «La filosofia è a sua volta di vitale importanza nell’opera di Ciaccio», prosegue il direttore del Musec, «l’artista, laureato in filosofia, ha frequentato profondamente il pensiero di Martin Heidegger (importantissimo filosofo tedesco, ndr) al quale lo accomunava una difficile ricerca dell’origine dell’opera d’arte».
La prima sala della mostra è avvolta nella penombra; il visitatore, appena varcata la soglia, sbatte le palpebre un paio di volte, il tempo di lasciar dilatare le pupille. Una riflessione dell’artista si staglia sullo sfondo blu della parete: "Le lastre raccolgono il tempo. | Ho cercato nelle lastre, nella loro memoria la trama del tempo e delle attese. | Ho ritrovato il tempo dell’immagine, ho ritrovato la matrice/origine nella sua nuda presenza. | Ho contemplato la soglia del tempo, il luogo del limite". Due opere realizzate su lastre di ferro, ‘Lastra’ (2013) e ‘Geviert’ (2002) e una su carta, ‘Monoprint Geviert’ (2001) occupano questo primo spazio espositivo. «Nella scelta dell’illuminazione e più in generale in tutto il processo di allestimento di questa personale è stato fondamentale riuscire a rendere da un lato la distanza dell’opera, la sua auraticità, dall’altro la sua materialità. Per esempio, la scelta del supporto di ‘Lastra’ (2013) è volta a permettere al visitatore di capacitarsi della sottigliezza dell’opera nonostante la pesantezza che invece il ferro trasmette» spiega Marta Santi, la responsabile del laboratorio allestimenti e conservazione del Musec.
© Archivio Roberto Ciaccio
Roberto Ciaccio - Revenant, 2010-2011. Carta su forex
Proseguendo nella mostra l’illuminazione si intensifica e scalda rivelando, in diverse declinazioni, una delle opere di riferimento della produzione artistica di Roberto Ciaccio: ‘Annotazioni di luce in otto momenti per Holzwege di Martin Heidegger’ (1990-1992). In quest’opera, già a partire dal titolo, viene sancito l’incontro tra l’espressione visiva, il linguaggio di Ciaccio e il pensiero di Heidegger. Si tratta di otto quadri che rivelano il trascorrere del tempo e il mutare della figura attraverso il suo vissuto. La terza sala ospita invece, ancora una volta in una luce diversa, ‘Stazioni per la croce’ (2005-2006), un’opera che vuole rappresentare il sentimento stesso del sacro attraverso la pittura, la figurazione. Continuando, si raggiunge ‘Revenants. Suite Cariatidi’ (2010-2011), una serie di tele monocrome, con minime variazioni in una ricerca che vuole vertere sull’identità conquistata grazie alla differenza, anche – e forse soprattutto – nella produzione in serie. «Questo plexiglass che protegge le opere e riflette l’immagine dello spettatore è voluto esplicitamente dall’artista. In questo si ha, da un lato la distanza dall’opera d’arte, dall’altro l’induzione di un’autoriflessione» spiega il direttore del Musec. L’ultima sala conserva ‘Memoria dell’Acqua’ (2013), un gruppo di lastre di rame esposto per giorni in uno stagno, un «ninfeo». Le tracce di questo passaggio si leggono sulla superficie del rame, che, in quanto metallo lucido (e non ancora ossidato) è anche in grado di dialogare con la luce, giocandoci.
«Sono nato a Roma il 2.1.1951 ma ho sempre vissuto a Milano, che considero il mio ambiente culturale formativo», si legge in una citazione dalle Note Autobiografiche 1975-1977 riportata sul catalogo della mostra. A Milano, infatti, l’artista ha avviato sia il proprio processo artistico, sia il dialogo con l’origine di questo stesso processo, laureandosi in filosofia all’Università Cattolica con la tesi ‘Genesi psicosociale dell’opera d’arte’. Un’indagine ancora oggi ininterrotta grazie al lavoro dell’Archivio Ciaccio e del Musec.