Tra storia e arte, fino al 5 giugno a Palazzo Reale si ripercorre l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano
Un noto storico (si era forse a Pisa, durante il penultimo o ultimo decennio del secolo scorso) diceva, più o meno: la riuscita di una mostra dipende da quanto ha inciso sulla nostra percezione del tema trattato. Ne riconduceva la portata alla capacità di agire sulla nostra cultura.
In effetti, quando partecipiamo a una mostra le nostre reazioni sono un sintomo di come tale trasformazione agisce (tutto ciò succede purtroppo anche nel caso di esperienze negative) e per questo si parla di politica culturale: chi programma e realizza approfitta delle risorse disponibili (il patrimonio artistico, in questo caso) per intervenire sulla vita sociale.
Costruita a Vienna e ospite fino al 5 giugno negli spazi del Palazzo Reale di Milano che continua a delegare a soggetti privati la propria programmazione culturale e artistica (in questo caso si tratta della nota società Skira), la mostra ‘Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano’ dedicata all’immagine della donna nel Cinquecento veneziano e al ruolo esercitato da Tiziano Vecellio nella costruzione di tale immagine pone un certo numero di questioni riguardo alla nostra conoscenza della cultura e della società veneziana durante il XVI secolo. Uno degli aspetti, come leggiamo nel contributo di Charles Hope, «è la crescente produzione di dipinti con figure femminili destinati principalmente ad ambienti domestici» (p. 43).
La ricerca, di cui la mostra e il catalogo danno conto, indaga sulle modalità e sui significati di tale proliferazione e prende atto dell’importante ruolo esercitato da Tiziano Vecellio che, come scrive Sylvia Ferino-Pagden, «ha ricreato la donna» (p. 27) elevando «ogni rappresentazione femminile a una glorificazione della donna» (p. 39). Nel riuscire ad «assicurare fama eterna alla donna e a se stesso … come nessun altro pittore del Cinquecento … riuscì a infondere una tale intensità nella realtà da lui percepita che, osservando i suoi quadri, si ha l’impressione che l’abbia reinventata per noi».
Vediamo, con le parole qui citate, come il lavoro di un artista intrecci alcuni concetti della vita e ne influenzi la nostra percezione: bellezza, femminile, muliebre. Siamo spinti a ridefinirli e la concezione di bellezza femminile costruita negli ultimi decenni di induzione commerciale si confronta con ciò che vediamo nelle sale della esposizione, spumeggiante quanto articolata. Vi è poi il concetto di erotismo, a proposito del quale molto del testo in catalogo indugia, puntellando di riferimenti teorici, letterari, ideologici le rappresentazioni (spesso magnifiche) esposte e le ipotesi euristiche generate.
Proprio attraverso la pastosità della pittura che vediamo in sala, attraverso le rese degli incarnati, gli ornamenti, la gestualità, le fogge, siamo immersi in una coltre spessa e profonda, polisemica e forse anche contraddittoria, comunque per noi difficilmente definibile e imbevuta di eccitante mistero. Come leggiamo a p. 87 del contributo di Silvia Gazzola «la distanza cronologica e culturale che ci separa dai ritratti cinquecenteschi fa sì che il senso di quella gestualità appaia ai nostri occhi inestricabilmente opaco, incerto quando non del tutto oscuro. Spingere lo sguardo oltre la cornice, al di là della finestra, implica allora un’operazione culturale di risarcimento del senso». Il progetto elaborato dal Kunst Historiches Museum dà corpo a tale operazione e ci restituisce, attraverso i contenuti iconografici e le scelte espressive, una feconda dialettica tra questioni storiche e artistiche.
Possiamo fare due esempi. Come possiamo leggere la rappresentazione del seno scoperto? «Mostrar le poppe è atto lascivo, e poco honesto, quasi che col far pompa di quelle s’invitino gli huomini a procurar di goderle». Così, ci riferisce Silvia Gazzola, scrive Giovanni Bonifacio nel 1616. Ma, per lo stesso Bonifacio, il seno è anche lo spazio in cui «si raccolgono, e tengono le cose che ci sono care, come quasi nel core riponendole» e «aprire il seno» «accenna a voler alcuna cosa caramente, come nel core, ricevere». Silvia Gazzola commenta: «Si palesa dunque un itinerario che muove da un piano fisico (le poppe), a uno affettivo (il seno); per giungere infine a una dimensione morale, etica (il petto). Il petto è definito da Bonifacio "il trono, e la regia dell’anima"».
Siamo qui in un luogo centrale di tutto il progetto e della mostra perché vi ritroviamo quei concetti già evocati prima e in particolare ci confrontiamo con un universo erotico così polisemico e intricatamente e meravigliosamente stratificato da indurci quasi a desiderare temporaneo riposo negli incarnati e nelle pieghe di panneggi di cui la pittura esposta è ricca. Verrebbe poi il desiderio di ripensare certi erotismi novecenteschi (in Man Ray, per esempio) e approfondire l’indagine sulle distanze e sui riferimenti storici.
Possiamo trarre un secondo esempio dal saggio di Enrico Maria Dal Pozzolo, dedicato alla eloquenza dei capelli. Esordisce evocando «il messaggio che l’artista – di norma in sintonia con il suo committente – ha deciso di comunicare mediante la pittura. Molti significati restano ancora reticenti, se non enigmatici, perché espressione di codici comunicativi scollegati rispetto agli odierni meccanismi di lettura di un dipinto» (p. 103). Ci viene così proposto, a fronte della nostra difficoltà di lettura e decodificazione, un impianto progettuale ed espressivo probabilmente piuttosto strutturato nel quale l’artista, soprattutto quando si trattava di un «imprenditore» come Tiziano Vecellio, utilizzava il campo espressivo come area di produzione di senso e di consenso per il proprio lavoro.
Abbiamo evocato alcuni frammenti di un quadro articolato, nel quale possiamo scoprire e riscoprire valori e riferimenti ideali della nostra vita, senza pretesa di «applicare schematicamente una unica prospettiva di lettura» (p. 132), come avviene con la Laura di Giorgione (la mostra affianca a Tiziano altri importanti autori), dove un intento idealizzante e simbolico si tempri in un ritratto di persona «reale, in carne e ossa, indicato dai lineamenti assai particolare, né belli né brutti». Ed eccoci così incarnati nel vero dove scorgiamo il bello.