Scoprire la cultura giapponese attraverso lo sguardo del collezionista luganese. Al Museo delle culture fino all’8 gennaio 2023
Una statua in bronzo di un Buddha che, dalla documentazione, scopriamo essere un “Amida Buddha”, il Buddha della luce e della vita infinita, realizzato nel Settecento. Si apre così la mostra ‘Japan, Arts and Life’, in corso al Musec, il Museo delle culture di Lugano, ma nel ricco e variegato percorso troviamo anche un imponente gancio da focolare di tipo Daikoku al quale, tramite un’asta di metallo, venivano fissate teiere e pentole da tenere sul fuoco; giare e piatti in ceramica; copriletto e vestiti con elaborate decorazioni e ancora maschere raffiguranti alcune divinità, casse e bauli da viaggio, lanterne e persino il classico gatto con la zampa alzata che capita spesso di incontrare in negozi e ristoranti orientali, solo che questo è in argilla e risale alla fine dell’Ottocento.
Proprio quest’ultimo oggetto attira l’attenzione non solo per il contrasto tra la sua bellezza e quella delle controparti plasticose che si vedono in giro, ma soprattutto perché solleva il tema dello sguardo europeo sulle culture altre, in questo caso giapponese. È inevitabile, per l’osservatore occidentale, fare ricorso a schemi e concetti occidentali che però possono essere molto lontani da quelli originali. Ed è interessante notare che quel gattino d’argilla è stato realizzato pochi anni dopo l’arrivo, nella baia di Tokyo, del Commodoro Matthew Perry che chiese, con tutta la persuasione garantita dalle navi da guerra statunitensi, l’apertura del Giappone rimasto isolato dal resto del mondo per qualche secolo. Questo gioco di sguardi tra culture, tra Europa e Giappone, rende difficile la semplice esposizione di reperti, come avverrebbe in un museo d’arte o etnografico che possono contare su una vicinanza tra visitatore e oggetti esposti. Nel parlare di questa mostra diventa quindi importante prendere in considerazione non solo la notevole qualità degli oggetti presenti – 170 opere tra tessuti, arredi, dipinti, oggetti di culto e del quotidiano – ma anche come il Museo delle culture abbia scelto di presentare al pubblico tutto questo materiale. L’approccio per avvicinare il visitatore alla cultura giapponese, chiaramente nei limiti di una mostra, è il collezionista – ma lui preferisce definirsi ‘keeper’, custode – Jeffrey Montgomery. Nella prima saletta, l’Amida Buddha è affiancato da una grande fotografia di Montgomery nel suo appartamento e tutto il percorso espositivo si snoda secondo quello che viene definito “il mondo interiore del collezionista”, il suo modo di percepire gli ideali estetici giapponesi e che ritroviamo anche nei brevi testi introduttivi di ogni sezione della mostra.
La scelta di partire da Jeffrey Montgomery, ha spiegato il direttore del Musec Paolo Campione, è dovuta non solo alla lunga amicizia che lega collezionista e museo – un reciproco rispetto che ha portato, dopo una prima esposizione a Villa Ciani nel 2010, ad attendere il momento migliore per una mostra ampia nei nuovi spazi di Villa Malpensata – ma anche alla necessità di dare al visitatore non esperto «una visione immediata di un enorme complesso culturale che è quello dell’arte giapponese che altrimenti andrebbe interpretato attraverso studi, approfondimenti, ricerche». Jeffrey Montgomery «ha fatto tutto questo lavoro per noi nel corso di sessant’anni raccogliendo la collezione con un’attitudine particolare, quella di chi ama la bellezza della semplicità, di chi scopre che una funzione è altrettanto importante di una strategia creativa, di chi si innamora delle piccole cose».
Chi è dunque Jeffrey Montgomery? Nato nel 1937 in California, è cresciuto in Inghilterra e, come riporta la sintetica biografia presente nella documentazione stampa, a “diciannove anni inizia una vita nomade durante la quale inizia a collezionare arte giapponese e arte popolare”. Da cinquant’anni vive con la moglie a Lugano e proprio qui, alla Galleria Gottardo, ha esposto per la prima volta alcuni degli oggetti raccolti: a quell’esposizione ne sono seguite altre, in Europa e negli Stati Uniti, e Montgomery si è scoperto un collezionista. Anche se, come accennato, in quel ruolo non si è mai appieno riconosciuto: durante l’incontro con la stampa ha raccontato di quando, dopo un’esposizione a New York, era stato invitato a San Francisco per partecipare a una tavola rotonda di collezionisti. «Eravamo in dodici e ho capito che non avevo niente in comune con gli altri: magari c’era passione ma ero l’unico lì ad avere voglia di condividere, di mostrare agli altri quello che facevo. Nel mio collezionare sono sempre stato molto libero nelle mie scelte». La collezione «è cresciuta da sola, come se ci fosse uno spirito shintoista o zen che ha fatto andare tutto bene – non dico bene per me, dico bene per la collezione e oggi non compro più come un tempo, ma se vedo un pezzo che mi piace dico subito “yes” e lo prendo». E questo al di là di considerazioni sul valore e l’importanza dell’oggetto che sono concetti occidentali «mentre per i giapponesi ogni oggetto ha il suo posto e la sua funzione e il valore dipende da quello».