Fino al 2 ottobre in mostra i disegni di bambini della Nuova Guinea raccolti negli anni Cinquanta dall’artista Dadi Wirz
C’è una frase, attribuita a Picasso, che riassume molto bene il rapporto tra una certa visione artistica del Novecento e l’innocenza infantile: "Ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino". Lo spazio in cui ci muoviamo è quello del primitivismo, del "buon selvaggio", del progresso e della modernità come causa di una corruzione che occorre superare non andando avanti, ma tornando indietro, andando alle origini, siano esse quelle dell’infanzia o delle popolazioni "primitive"; non è un caso se molti artisti dell’epoca fossero anche collezionisti di "arte etnica". In questo è molto esplicito Paul Klee: "Nell’arte si può anche cominciare da capo, e ciò è evidente, più che altrove, in raccolte etnografiche oppure a casa propria, nella stanza riservata ai bambini. Non ridere lettore! Anche i bambini conoscono l’arte e vi mettono molta saggezza!". Oggi sono chiari i limiti di quella lettura, in particolare per quanto riguarda l’assimilazione di altre culture a "infanzia dell’umanità", ma rimane una chiave di interpretazione interessante per quanto riguarda la ricerca di un’estetica che non sia influenzata dagli schemi e dalla storia della cultura occidentale.
La citazione di Klee è tratta dall’interessante saggio di Isabella Lenzo Massei contenuto nel catalogo della mostra ‘L’infanzia del segno’ che, al Musec, Museo delle culture di Lugano, fino al 2 ottobre, affronta questo tema da una prospettiva particolare, partendo da una "doppia innocenza" con alcuni disegni infantili realizzati negli anni Cinquanta del Novecento da bambine e bambini della Nuova Guinea. L’esposizione si inserisce nel ciclo Dèibambini che il museo organizzava quando ancora si trovava nella sede di Villa Heleneum e che il trasferimento a Villa Malpensata aveva interrotto. All’Heleneum si trattava di coinvolgere i bambini in un lungo progetto educativo che poi portava a un’esposizione temporanea e a un catalogo. Questo "sorprendente viaggio per capitoli attraverso i sogni infantili" – come lo definisce il direttore del Musec Francesco Paolo Campione nel suo intervento sul catalogo – ritorna quindi con una decima esposizione ma con un approccio rinnovato che parte, appunto, dalle opere d’arte infantile del passato, da prendere a spunto e a modello per l’elaborazione tematica delle grammatiche espressive.
Il progetto ‘L’infanzia del segno’ è tuttavia reso possibile da un incontro, quello con il nonagenario artista svizzero Dadi Wirz, figlio dell’etnologo, viaggiatore e collezionista Paul. Nato a Basilea nel 1931, dopo un’infanzia in giro per il mondo con il padre Dadi ha conseguito la licenza federale svizzera come fotografo e all’inizio degli anni Cinquanta frequenta l’Académie André Lhote di Parigi, dove ha modo di conoscere, tra gli altri, Calder, Ernst, Giacometti e Arp. Alla fine del 1952, appena ventenne, accompagna il padre in un lungo viaggio attraverso la Nuova Guinea, dove tornerà, dopo la morte del padre, nel 1955 mosso dalla volontà di conoscere e ritrarre un mondo di cui aveva la percezione dell’imminente crepuscolo.
In questi viaggi Dadi Wirz aveva con sé due cose: da una parte quella visione di "innocenza artistica" delle culture extraeuropee unita a teorie educative basate sulla creatività spontanea – l’Académie du jeudi del pedagogista tedesco Arno Stern, del quale parla Moira Luraschi in dialogo con Wirz nel catalogo –; dall’altra fogli, matite e colori da dare a bambine e bambini che incontrava nei villaggi. Dadi ha così raccolto, con spirito artistico più che etnografico, centinaia di disegni, annotando sul retro il nome dell’autore e, in diversi casi, anche l’età presunta e il villaggio di provenienza.
I disegni, custoditi dall’artista fino al 2020, sono stati donati al Musec che li ha restaurati, studiati e adesso esposti, suddividendoli secondo alcune "linee tematiche".
Si tratta di arte infantile, artisticamente ingenua, ma grazie all’intelligente abbinamento con alcuni reperti raccolti da Serge Brignoni – artista ticinese la cui collezione di arte etnica è alla base del Musec – e opere di artisti contemporanei della Nuova Guinea si ha davvero l’impressione di cogliere degli "universali", geometrici e raffigurativi, che precedono gli schemi estetici.