A Palazzo Reale, Milano, fino al 25 luglio, le opere di 34 artiste per alcune delle quali si sa molto poco
50 anni fa, dopo decenni di rivendicazioni, le donne svizzere acquisivano il diritto di voto e di eleggibilità. 500 anni fa Properzia de’ Rossi veniva processata a Bologna perché coinvolta in una lite. Si era guadagnata con merito di poter lavorare come prima e unica donna scultrice nel prestigioso cantiere di San Petronio, ma alcuni maschi invidiosi del suo successo ne profittarono per accusarla di concubinaggio e immoralità. Dopo di lei non poche altre dovettero vivere di rinunce e soprusi per potersi dedicare all’arte e ottenere il giusto riconoscimento.
La mostra Le Signore dell’Arte. Storie di donne tra il ‘500 e ‘600 espone opere di 34 artiste per alcune delle quali si sa molto poco, mentre altre riuscirono a raggiungere la fama dei colleghi uomini. La più nota è senz’altro Artemisia Gentileschi cui Palazzo Reale ha dedicato una mostra nel 2011, ma non è stata di certo l’unica a lasciare il segno: bastino i nomi di Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Fede Galizia. Si tratta dunque di una rassegna dal taglio storico mirante non solo a ricostruire l’esile filo dell’arte al ‘femminile’ che per lungo tempo – praticamente fino alla nascita della modernità nell’800, poi le cose cambiano – corre sottotraccia rispetto a quello degli artisti maschi; ma anche, e soprattutto, a evidenziarne le peculiarità mettendole a confronto con lo spirito dei tempi e la lezione dei maggiori maestri. Se in un’ottica storico-artistica il discorso non può che basarsi sulle caratteristiche stilistiche e formali della loro pittura, nell’intento d'individuarne modelli e punti di riferimento, dal punto di vista sociologico e umano l’interesse non può che riguardare la problematicità di un contesto storico (e talvolta anche familiare) non certo favorevole alla professione della donna artista e al riconoscimento del ruolo femminile dentro la società.
Dal momento che fino al ‘600 venne loro negato l’accesso alle accademie dove esercitarsi nel disegno e nello studio del nudo, era impossibile per una donna che non fosse di famiglia altolocata apprendere tecniche e metodi della pittura frequentando la bottega o l’atelier di un noto pittore; si tratta quindi spesso di artiste autodidatte o che si sono formate nella bottega del padre. Sappiamo però anche cosa succedeva, come dimostra il ben noto caso di Artemisia Gentileschi, tra l’altro prima donna ammessa nell’Accademia fiorentina nel 1616. Ma la sua storia è anche la prova – non unica, basti pensare a Sofonisba Anguissola alla corte di Spagna – di come una donna dotata di ambizione e tenacia potesse arrivare a frequentare eruditi e letterati, divenendo da pittrice analfabeta un’accademica a Firenze, ammessa a Venezia e a Napoli nei circoli culturali più elitari.
Un percorso fatto di spine, lotte e resistenze che la mostra documenta nei saggi in catalogo e nelle cinque sezioni che la compongono. Tramite le loro vicende biografiche si evidenziano i problematici rapporti con la società del tempo, ma anche i successi raggiunti presso le grandi corti internazionali, in qualche caso pure le ottime capacità relazionali grazie alle quali talune di loro seppero trasformarsi in vere e proprie imprenditrici o crearsi opportune condizioni di vita. Penso alla accorta e sagace – come la definiva il Malvasia – Lavinia Fontana, bolognese nata nel 1552, la quale, consapevole delle proprie capacità e dell’irrinunciabile necessità di esercitare il proprio talento, orgogliosa del proprio status di donna coltivata ed erudita, non solo fa ampie concessioni al soggetto erotico declinato secondo il gusto manieristico internazionale della Scuola di Fontainebleau, ma sceglie come compagno di vita un uomo che “lei aiutar dovesse, e in ciò affaticarsi, ma in nulla riuscendo, solea burlarlo”. Non vive dunque all’ombra di un uomo, semmai mette in ombra un uomo, e tuttavia non scardina l’ordine giuridico e familiare lasciando al marito il diritto-dovere di apporre la sua firma e di farsi lui garante nei contratti procurati dalla moglie. Sempre il Malvasia loda la “pittura virile” dell’altra bolognese Elisabetta Sirani ritenendo in questo di farle debito omaggio e pubblico riconoscimento: “Elisabetta […] à prezzo di sangue, non che di sudori s’acquistò il Sesso Virile. Nacque Femmina, ma d’effemminato altro non ritenne, che la corteccia del Nome; non oprò mai da donna, e più che da huomo”.
Al di là delle insistenze sugli orpelli femminili o le raffinate eleganze tanto ricercate dai committenti aristocratici cui più di una si concede, operando comunque in linea con l’estetica del tempo per la quale l’arte è anche perizia del mestiere e decoro; a colpirci maggiormente sono quelle donne che con la loro arte hanno affermato la loro femminilità, magari anche esibendola, o calato nel corpus delle loro pitture soggetti e temi più prossimi alle loro condizioni di vita: dalla maternità alla sessualità, dagli amori infelici all’educazione letteraria e musicale. C’è però un soggetto che più di altri si fa spia del loro malessere o della violenza che le circonda: quando, servendosi della Bibbia o del mito, mettono in scena un campionario di donne coraggiose e dotate di orgoglio, pronte a sfidare l’autorità maschile fino alla sua eliminazione, senza alcuna concessione.