‘Tra le ciglia’, l’esposizione dedicata all’artista ticinese in corso al Lac, è anche online
“Il mio lavoro ha sempre contrapposto periodi di studio, di ricerca e di disciplina a periodi di libertà creativa primigenia.” Così scrive Paolo Mazzuchelli parlando del suo modo di fare e vivere l’arte: si riferiva a un periodo preciso e iniziale della sua attività artistica, ma in realtà è un’attitudine che lo accompagna e si ritrova anche nelle sue opere più tarde, come ben si vede visitando la bella mostra al Museo d’arte della Svizzera italiana (disponibile in modalità virtuale su www.masilugano.ch/it/883/pam-mazzuchelli). Al Lac le opere, pur riattraversando il corso degli anni, non sono esposte in ordine rigorosamente cronologico, ma disseminate qua e là al fine di evidenziare la centralità o il continuo ritorno su alcuni temi, soggetti o soluzioni formali che ne costituiscono il filo conduttore e l’unità di fondo: non per nulla l’ultima sala con le opere più recenti dell’artista espone anche il grande olio ‘Knossos’ del 1982-1983, dipinto quasi 40 anni prima. Si tratta insomma di temi e forme che variano e si trasformano nel tempo, ma che trovano il loro inalienabile punto di convergenza nel rapporto che l’artista, tra i più rappresentativi della sua generazione, stabilisce con la natura, il corpo e la parola: i tre cardini attorno ai quali ha sempre ruotato l’opera artistica di Pam Mazzuchelli.
Il quale è partito come pittore di gesto e colore, fatto non di rado di materia spessa, ma che ha poi sottoposto il suo lavoro a un processo riduttivo che lo ha progressivamente portato all’uso quasi esclusivo del nero e a prediligere il disegno alla pittura. Un disegno indagato in tutte le sue potenzialità espressive, tanto da arrivare a delle opere impressionanti – solo ed esclusivamente in bianco e nero – non solo per la loro ampiezza, ma anche e soprattutto per la visionarietà inquietante dei suoi paesaggi, per il rovesciamento dei piani spaziali che obbligano a vivere la natura dal punto di vista prospettico dell’insetto volante o del verme che vi si rintana, rivelando mondi plurimi e misteriosi sia sopra che sotto il filo della terra, coinvolgendo emotivamente l’osservatore che vi viene trascinato dentro. L'elemento naturalistico è immesso dentro uno spazio visionario, strettamente strutturato e compattato, tagliato da fasci di luce non naturalistici, scorciato o allungato in un gioco di prospettive distorcenti.
Realtà e surrealtà si mescolano, descrizione ed espressività si contaminano, elementi vicini e lontani si confondono o ibridano lasciando trapelare – fin dai titoli – oscuri e inquietanti messaggi per un mondo sempre più disastrato e periclitante sia di qua che di là dell’Oceano: ‘Lettere dall’Europa (per Chico Mendes)’ del 1993. Quella sala è uno dei due fulcri della rassegna e non si può non restarne profondamente colpiti. Ma anche quando vi si riconoscessero erbe e fiori, che non di rado paiono tratti da un libro d'erboristica, Pam sfugge al rischio dell'illustrazione vuoi per l’atmosfera in cui li cala o le suggestioni che sa smuovere, vuoi per le soluzioni formali o le presenze che vi si accompagnano: dalla ‘terra dei fuochi’ per via del suolo inquinato al Nano Farfuglia, dai compagni fantasiosi di un’infanzia lontana a quelli più personali e magari anche tristi dell’età adulta, dalla memoria di amici scomparsi che vivono oggi in un loro mondo disgiunto a questa nostra terra che cerca di sopravvivere come può disseminando ovunque spore e insetti per l’impollinazione. Realtà del vissuto, personale o collettiva, partecipazione emotiva e giudizio, naturalismo e visionarietà, espressionismo e surrealismo si fondono nelle opere di Mazzuchelli che si amplificano nello spazio come una sinfonia lenta. Quello suo è uno sguardo silente ma non indifferente su questa nostra ‘terra desolata’ (Thomas Eliot) e sul senso di questo nostro esistere: non per nulla gli ultimi suoi lavori esposti in mostra – una serie di puntesecche del 2018-2019 – si intitola ‘Ancora una stagione per riflettere’.
Nel frattempo, però, è tornato il colore, anch’esso indagato nelle sue varie potenzialità come evidenzia il percorso espositivo: dalle luminescenze psichedeliche delle grandi lastre xilografiche dei ‘Giardini di topo’ (1997-1998) agli impasti materici con il bitume, la terra, il gesso o la cenere (2005-2008) o nei ‘Capriccetti’ (dal 2014) cui viene riservata l’ultima sala: un ulteriore giro di boa che chiaramente si richiama all’opera di Goya. Tornano infatti in primo piano tanto il corpo umano quanto il disegno qua e là screziato da tocchi o parti in colore; la scrittura è invece quasi del tutto scomparsa sostituita da un segno che si fa sempre più gestuale e aggressivo, di una scorrevolezza travolgente dentro impaginazioni debordanti. Vi sono esposti una cinquantina di disegni, esposti secondo un ordine istintivo, realizzati nell’ultimo quinquennio: un grande caotico groviglio di corpi che si assaltano e sbranano, anche mozzati e innaturalmente contorti: un’immagine terrificante messa a chiusura di mostra, con cui PAM denuncia la violenza che contraddistingue in varie forma la nostra società, ma dove forse c’è ancora spazio per ‘un po’ di amore’.