Arte

Philippe Daverio e l’immaginificazione dell’arte

Il critico d’arte, scomparso oggi all’età di 71 anni, è stato un protagonsita protagonista della spettacolarizzazione dell’arte e del sistema

Philippe Daverio nel 2008 (Lelli e Masotti, Wikimedia Commons)
2 settembre 2020
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Philippe Daverio è stato in Italia un protagonista della spettacolarizzazione dell’arte e del sistema nel quale immaginificazione, programmazione e decisione politica, attivismo editoriale e mediatico compongono un unico magma la cui decifrazione è difficile e i cui benefici sono, se esistono, nascosti da una coltre di bruma.

È riuscito ad attraversare epoche diverse con ruoli pindarici e probabilmente a uscire di scena supportato da coloro che lo hanno visto, in passato, come una figura mefitica. Titolare di una prima galleria a Milano, poi a New York, poi seguita da una seconda a Milano, ha cavalcato gli anni Ottanta della cosiddetta Milano Da Bere. Nel 1993 si presta come assessore alla cultura, tempo libero, educazione e relazioni internazionali per la giunta di Marco Formentini della Lega Nord. In quella congiuntura, viene accusato di offrire una copertura pseudo culturale a un governo della città retrivo, in cambio di aiuto per risollevare le sorti della propria galleria. Queste si concluderanno con un fallimento e, nel 1997, una indagine per bancarotta fraudolenta. Anni dopo dichiarerà di non avere mai sposato le idee leghiste, di essere stato solo consenziente nei confronti delle «tesi di autonomia gestionale» incarnate da Marco Formentini, rivendicando una adesione dei leghisti alle “idee daveriane” e di nutrire terrore per il leghismo italiano.

Nella veste di politico, Daverio è stato il responsabile della inaugurazione della politica delle grandi mostre alla caccia di una adesione massiccia delle persone («portando le presenze da 30.000 visitatori nel 1993 a oltre un milione nel 1996», recita il suo sito); ha inoltre favorito la privatizzazione della cultura attraverso l’istituzione delle fondazioni (Fondazione Teatro alla Scala, Fondazione Pierlombardo, Fondazione dei Pomeriggi Musicali «intese quali strumento di autonomia e di osmosi tra pubblico e privato nelle istituzioni culturali»). È stato insomma un attore importante, anche se forse non del tutto consapevole, nel processo di alienazione della politica e della programmazione culturale, da parte della amministrazione pubblica, al gioco degli interessi privati.

L’ideologia privatista e antidemocratica di Daverio e la sua disponibilità nei confronti della Lega Nord ci aiutano a capire, dalla angolatura della politica culturale e artistica, quale sia stato il vero ruolo storico di quella amministrazione: non tanto di perseguire autonomia e tutela dei localismi quanto di agevolare processi di deregolamentazione e espropriazione della politica democratica.

Dopo l’esperienza politica Philippe Daverio ha continuato a esercitare un ruolo di peso in molteplici realtà italiane, per esempio in Sicilia ma anche come direttore del Museo della Fabbrica del Duomo o del Museo di Verbania.

Nel corso degli ultimi abbondanti venti anni la sua presenza in istituzioni sparpagliate nel territorio (incluso il ruolo di responsabile della biblioteca di Salemi in Sicilia, chiamato da Vittorio Sgarbi, in quel tempo stranamente sindaco di quel paese) si è accompagnato a un pervicace attivismo mediatico e pubblicistico grazie al quale è riuscito ad accreditarsi come importante divulgatore dell’arte. Oratore fluente e non sempre continente (basti citare il suo paragone del cannolo siciliano alla canna mozza del fucile), consapevole del fatto che facendo continuamente zampillare citazioni e frasi poco verificabili (mi ha colpito la dichiarazione che l’insicurezza degli italiani è legata al terremoto) si possa conseguire una occupazione dello spazio sonoro e quindi un aumento del potere assertivo, è intervenuto con trasmissioni televisive, pubblicazioni di libri, conferenze e incontri salottieri che spaziano in vaste lande dell’immaginario artistico e del cosiddetto culturame.

Il suo lascito si compone del risultato delle sue azioni e della sua capacità di utilizzare il potere senza farne percepire le implicazioni gestionali. Egli ci lascia anche la consapevolezza del fatto che, se l’abito non fa il monaco, il vestirsi seguendo una eccentrica continuità può essere una maschera con la quale giocare a fare il saltimbanco.