La Fondazione Marguerite Arp di Locarno dedica una mostra alla "Public art" e al dialogo tra arte e architettura
A dispetto della sua apparente bonomia o forse proprio per questo, vale a dire per la genuinità del suo spirito certamente non ingenuo, Jean Arp era un artista libero, un creativo e un sognatore al tempo stesso, capace non solo di lasciarsi incantare dall’infinita ricchezza della natura, ma che viveva l’arte come una sollecitazione continua, un processo generativo non vincolato da confini disciplinari o regole di accademia. “L’arte è un frutto che cresce nell’uomo, come un frutto su una pianta o un bambino nel grembo di sua madre”, così diceva e così anche faceva: disegnava forme e scriveva poesie, dipingeva e ritagliava , sovrapponeva e contornava, passava dal piano al rilievo, dal rilievo al volume, dal volume allo spazio, sia quello interno alla scultura che quello esterno, nel suo rapporto con lo spazio che la accoglieva. Dove però far proprio il processo della natura non significava per lui imitarne le forme, dal momento che l’arte è un prodotto della mente e dello spirito umani e non copia del visibile.
A pensarci bene poteva lasciar stupiti che in tale processo di fusione di tutte le arti, tanto perseguito dalle avanguardie storiche – dalla Secessione al Bauhaus per fare solo due nomi – ma anche così naturale in un artista come Jean Arp, di cui ben si conosce l’interrelazione continua tra pittura, scultura e scrittura, mancasse la voce ‘architettura’. Non se ne era mai parlato e quindi non ci si pensava. A questa lacuna risponde ora la breve ma raffinata mostra in corso alla Fondazione Arp di Locarno: è la contrazione, adattata ai diversi spazi, della omologa rassegna presentata nel 2019 al Kunstmuseum di Appenzello a cura di Simona Martinoli e Roland Scotti.
In effetti, a partire dal 1945, quando ormai era un artista affermato, Arp ricevette diversi incarichi per la realizzazione di opere da collocare in edifici pubblici o in spazi aperti ma relazionati all’architettura, fornendo così un importante contributo alla “sintesi delle arti”fortemente sostenuta dai protagonisti dell’architettura moderna di quegli anni. La mostra, cui si accompagna una pregevole pubblicazione a più voci incentrata proprio sul rapporto arte-architettura, analizza suoi sette importanti interventi plastici in altrettanti progetti di respiro internazionale: la sede dell’Unesco a Parigi; la Ciudad Universitaria di Caracas, nel Venezuela; la chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Oberwil (BL); la chiesa di Ognissanti a Basilea; il Politecnico di Braunschweig, Audimax; la Biblioteca dell’Università di Bonn e la Scuola di Arti applicate a Basilea. Evidentemente si tratta di realizzazioni documentate in mostra attraverso schizzi, studi, disegni, modelli, fotografie storiche o riportate in riviste e pubblicazioni, ma anche lettere ed opere che concernono o ruotano attorno a quei suoi interventi.
Dall’analisi dell’insieme emergono alcuni aspetti che meritano di essere evidenziati in quanto aggiungono elementi di valutazione che amplificano la visione dell’arte finora attribuita a Jean Arp e ne dinamizzano il pensiero artistico.
Anzitutto la sentita esigenza che ad una architettura moderna corrisponda anche la presenza di un’arte moderna che si integri e dialoghi con quella: aprendosi quindi alle espressioni artistiche contemporanee. Non procedendo però per giustapposizione, con l’aggiunta di un elemento decorativo prelevato dall’atelier di un artista e collocato in quello spazio a posteriori, ma studiato per quello spazio e in collaborazione con gli architetti e gli altri artisti chiamati a collaborare alla progettazione di quella unità organica in cui le arti si fondono per conseguire un obiettivo comune.
Un obiettivo dal duplice risvolto. L’uno proiettato all’esterno: vale a dire creare degli spazi pubblici dove chi entra, magari senza neppure accorgersene, senta “l’armonia delle parti”, la respiri senza pensarci. È il cosiddetto tema della “riconciliazione” tra l’arte e il pubblico, cioè dell’arte che esce dai luoghi ad essa deputati, musei e gallerie, ed entra negli spazi di vita della cittadinanza. Ma perché questo si realizzi davvero – e questo coinvolge dall’interno gli artisti – occorre che costoro siano mossi da una reale spirito di collaborazione e di disponibilità a una interazione sinergetica e sovraindividuale. A tale riguardo Arp arriva addirittura a sostenere che gli artisti che operano in questo senso “dovrebbero lavorare in comunità o botteghe come facevano gli artisti del medioevo”, a favore di un’arte collettiva e anonima illuminata però da un comune obiettivo, lontano dal protagonismo dell’artista-genio, tipico del Rinascimento.
Quanto a lui e alle persone con cui collaborò in varie parti d’Europa o in America ci limitiamo qui a ricordare i nomi di Marcel Breuer, Walter Gropius, Pier Luigi Nervi, Carlos Villanueva , per gli architetti o ingegneri; di Calder, Mirò, Moore, Naguchi, Picasso, Chagall tra gli artisti: tutti tra i più importanti dell’arte novecentesca. Ma anche dentro quel contesto notevolissimo, Arp seppe profilarsi sempre con leggerezza ed ironia, capace di rinnovarsi e di fare dell’arte un processo analogo a quello della libera crescita in natura, una natura prolifica e feconda che crea forme senza alcun fine precostituito.