Christina Rosamilia, attrice e scrittrice nata e cresciuta in Ticino, parla del suo ‘viaggio all’inferno’ durante le scuole e di come evitare tanto dolore
«Da donna transessuale posso affermare che quello che ho dovuto subire alle scuole elementari, medie e superiori è stato un viaggio all’inferno e che se avessi avuto un regalo come l’Agenda di quest’anno avrei probabilmente intravisto una piccola porta aperta verso un’altra possibilità. Non sarei cresciuta sentendomi così sbagliata e sicuramente avrei avuto qualche strumento in più per capire chi ero e cosa cercavo». Così Christina Rosamilia – attrice, cantante e scrittrice nata e cresciuta in Ticino – si esprime rispetto alla pubblicazione curata da Decs e Dss in cui si trovano le due discusse pagine sulla fluidità di genere, dicendosi favorevole alla sua distribuzione.
«Come chiunque si trovi confrontato con la disforia di genere, mi sentivo prigioniera in un corpo che non riconoscevo allo specchio, e questo era bruttissimo», ricorda Christina, riferendosi alla condizione per cui una persona si identifica in maniera intensa e persistente con individui di sesso opposto a quello biologico, e che lei ha conosciuto fin da piccola. La casistica riguardo alla diagnosi clinica di disforia di genere, spiega Christina, «mostra che spesso si manifesta già dai 2 ai 3 anni, anche se può emergere a qualsiasi età. Generalmente però nei bambini non viene diagnosticata fino ai 6-9 anni dato che nella fase precedente non è insolito che attraversino periodi transitori di sperimentazione. Solo se certi atteggiamenti persistono, alcuni genitori portano i figli da uno psicologo o psichiatra per accertamenti».
La disforia di genere, dice Christina per diretta esperienza, «può influenzare la vita in ogni suo aspetto, rendendo impossibile la cosa più importante per un individuo: essere se stesso». Le persone che vivono questa condizione devono affrontare enormi sfide e sofferenze per tutta la vita, spesso fin dall’infanzia: «Ho trascorso l’esistenza sempre con il dito puntato contro. Il periodo peggiore è stato alle Medie. Erano gli anni Novanta a Biasca e il bullismo che ho subito è stato crudo e spietato. Essendo cresciuta in una zona piuttosto rurale e poco incline all’apertura, sono stata isolata, in primis dai professori, che non di rado mi incolpavano per cose che non avevo fatto. Mentre i ragazzi, anche più grandi di me, andando a scuola mi picchiavano, mi lanciavano bottiglie di vetro, mi sputavano addosso, mi ricoprivano di insulti terribili con auguri di morte. Non ricordo nemmeno una ricreazione trascorsa sul piazzale della scuola, mi chiudevo sempre nei gabinetti aspettando che suonasse la campanella e con vari espedienti entravo in aula per ultima e uscivo per prima così da evitare che mi facessero del male. Avevo anche paura di prendere i mezzi pubblici, facevo lunghe camminate. Mi è ad esempio capitato di scendere dal bus a Castione e andare a piedi fino a Biasca per non essere aggredita. Queste sono state le Medie per me, dove non ho trovato nessun supporto».
La situazione è iniziata a migliorare col passaggio di Christina alle medie-superiori, a Lugano, in quella che allora si chiamava ‘Propedeutica’. «Lì ho incontrato compagni più aperti e disponibili, forse anche perché era una scuola a indirizzo sociale. Vi ho riconosciuto l’intento, seppur rudimentale, di inclusività. Di quel periodo ho un bellissimo ricordo, anche se non certo di tutto. Considerando che eravamo agli inizi degli anni Duemila, ho incontrato dei professori davvero in gamba e avanti che mi permettevano di andare a scuola vestita da donna, a differenza di quanto avveniva alle Medie da cui se mi presentavo così venivo cacciata. Il fatto di avere incontrato un piccolo spazio dove potevo iniziare a essere me stessa mi ha molto aiutata. Altri professori al contempo hanno però cercato di rendermi la vita impossibile, come quello di ginnastica che quando mi stava già crescendo il seno mi obbligava a dormire e a fare la doccia con i ragazzi sia a scuola che nelle gite scolastiche. Tutto questo nonostante le compagne di classe avessero firmato una petizione nella quale c’era scritto che mi permettevano di stare con loro».
Christina ritiene che riflessioni come quelle affidate all’Agenda scolastica di quest’anno siano strumenti in grado ad aprire un varco verso una vita di minore sofferenza, e considera la polemica montatavi intorno «perlopiù riconducibile a una strumentalizzazione politica. Bisognerebbe vergognarsi – dice – di sfruttare bambini e ragazzi per contendersi il voto degli elettori. A chi invece ha veramente a cuore il loro sviluppo, vorrei ricordare che non sono giocattoli, sanno capire e ragionare. Dovremmo dare loro più supporto e più attenzione e non certo isolare chi si sente diverso. Perché la credenza che la realtà che ognuno vede sia l’unica realtà esistente è la più pericolosa di tutte le illusioni». Tuttavia secondo Christina iniziative come quelle dell’Agenda non sono sufficienti a creare adeguata consapevolezza sul tema: «Ritengo sia molto più utile parlarne a scuola direttamente con gli studenti, sempre ovviamente rispettando il loro benessere. E non per indottrinare o convertire qualcuno. Dal mio punto di vista sarebbe utile inserire la questione Lgbt in un più ampio discorso di inclusione di tutte le minoranze». Inclusione che, nota Christina, va distinta da integrazione: «L’inclusione è un processo continuo e multidimensionale che dovrebbe coinvolgere tutta la scuola: ragazzi, docenti, direttori. Non basta integrare le diversità, occorre fare spazio alla ricchezza della differenza, adeguando, di volta in volta, gli ambienti e la prassi in base a ogni singolarità. Solo così è possibile gettare le basi per creare un domani le condizioni per una piena e attiva partecipazione alla società di ogni suo membro».
La consapevolezza è d’altra parte che «non tutti hanno gli strumenti necessari per affrontare queste tematiche. Penso ai genitori e capisco le loro preoccupazioni perché si tratta di argomenti che in Ticino sembrano una novità». Christina ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti, in Spagna, in Inghilterra e in Italia: «Ogni Paese ha la sua realtà rurale, però l’Inghilterra è avanti anni luce. Quando si compilano formulari, anche istituzionali, si trovano caselle come il terzo sesso oppure la possibilità di non rispondere. Inoltre, sempre in Inghilterra l’omofobia o il razzismo sul posto di lavoro comportano il licenziamento immediato. A me in Ticino è capitato di essere aggredita, insultata e licenziata quando il mio passato è venuto alla luce, e anche se ho intentato una causa legale, nessuno è mai stato punito».
Dal suo osservatorio, Christina ritiene che nell’approccio alle tematiche Lgbt in Svizzera ci siano stati miglioramenti fino a qualche anno fa, «ma ora mi sembra che siamo fermi, se non che stiamo regredendo. In Svizzera le terapie di conversione che intendono “curare l’omosessualità” sono ancora legali e questo è scandaloso. C’è molto da fare, e questo perché si tratta di argomenti che poco interessano alle istituzioni. Prendiamo per esempio la transessualità, gli studi a oggi disponibili sono ancora pochi proprio perché manca la volontà di affrontarli». Non c’è quindi da stare allegri, commenta Christina, «perché le cose non stanno evolvendo o ciò sta avvenendo troppo lentamente». Il suo appello è allora a «non negare agli adulti di domani la possibilità di essere persone migliori, più empatiche e attente al prossimo».