Ticino

Il Ticino, la ‘ndrangheta, ‘la zia giù al paese’

Il punto sulla criminalità organizzata con l’esperta Madeleine Rossi, che sottolinea i rischi di ‘colonizzazione’ e il contrasto inadeguato

(Ti-Press)
26 marzo 2021
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«Ma tanto la mafia non esiste». Comincia con una battuta amara Madeleine Rossi, giornalista che da anni studia la diffusione in Svizzera della criminalità organizzata e che a breve pubblicherà il volume ‘La mafia en Suisse, au coeur du crime organisé’ (Editions Attinger). Poi si spiega meglio: «È come se il problema venisse rimosso, invece di riconoscerne la gravità». Con Rossi decidiamo di concentrarci sulla ‘ndrangheta, oggetto in Italia di un monumentale maxiprocesso, ma anche «la più pervasiva delle mafie in Ticino: laddove Cosa Nostra e Camorra sono egualmente pericolose, ma tendono a radicarsi meno sul territorio, la ‘ndrangheta ne colonizza il tessuto sociale e produttivo».

Dalla bucalettere al bar

Di recente ‘Falò’ (Rsi) ha ricordato come anche grazie a certe società bucalettere – quelle ‘di carta’ e senza reali attività lecite – la Svizzera diventi “refugium peccatorum” nel quale si accalcano loschi personaggi, capaci addirittura di destabilizzare l’imprenditoria onesta. Tornando più specificamente alla ’ndrangheta, «un primo problema è quello dei permessi di residenza ai pregiudicati, che le società bucalettere permettono di ottenere firmando contratti di lavoro falsi», spiega Rossi. «Il problema delle residenze fittizie è stato affrontato in Ticino con maggiori controlli dopo il caso di Gennaro Pulice (killer della ‘ndrangheta residente a Viganello tra 2013 e 2015, ndr). Ma il fenomeno resta vivo specie nel Grigioni italiano, e permette a questi pregiudicati di rimanere attivi anche in Ticino». Conta anche «la frattura culturale e linguistica tra la capitale Coira e il Moesano, tale che quest’ultimo si sente spesso abbandonato a se stesso quando deve affrontare problemi di criminalità organizzata». Le stesse bucalettere potrebbero servire poi a riciclare denaro frutto di attività illegali, trasferendolo in Svizzera contro l’emissione di fatture per servizi inesistenti.

«Ma c’è un modo ancora più semplice per nascondere i soldi guadagnati ad esempio col traffico di droga e di armi», aggiunge Rossi: «Acquistare attività come bar e ristoranti. La ‘ndrangheta sta seduta su cifre colossali, che non sa letteralmente come spendere: è disposta anche a perdere metà del denaro iniziale pur di pulirlo investendolo in Svizzera. Per loro non è un problema, fa parte del gioco. Temo che il fenomeno diventerà ancora più diffuso ora che sempre più attività e imprese, colpite dalla crisi economica post-Covid, si troveranno vulnerabili a certe offerte». L'avanzata fa il paio con quella sul fronte dell’edilizia e degli appalti pubblici, «come nel caso delle commesse in odor di mafia per il cantiere del Ceneri, anche se spesso certi fenomeni passano anche da realtà molto più piccole».

Pregiudizi rischiosi

Un fenomeno del quale d’altronde è impossibile stimare le proporzioni, col rischio di alimentare dolorosi pregiudizi verso qualsiasi residente di origine calabrese o meridionale. «Si tratta di organizzazioni su base familiare, che vivono comunque all’interno delle comunità di riferimento; il caso più clamoroso in Ticino è stato quello delle cellule della ‘ndrina Ferrazzo (coinvolta nella lunga e tormentata inchiesta ‘Quatur’, ndr). È chiaro allora che anche chi non c’entra nulla rischia di dover scontare sospetti infondati. Queste comunità possono essere le prime vittime delle attività della ‘ndrangheta, sia per il danno reputazionale, sia perché i loro elementi più deboli possono trovarsi esposti a pressioni indebite. Basta che ti chiedano ‘Come sta tua zia giù al paese?’ per farti andare in fibrillazione».

‘Giù al paese’ arrivano, dalla Svizzera, anche enormi quantitativi di armi: «Non parliamo solo di pistole di piccolo calibro, ma di mitra, fucili dell’esercito svizzero, armi anticarro. Non leggo quasi mai un’ordinanza di custodia cautelare o un’informativa dei Carabinieri dalla quale non spuntino cinque o sei nomi di inquisiti fermati in Calabria con armi procurate in Svizzera. Tutto grazie a un enorme mercato grigio».

‘Servono più risorse’

Per contrastare il fenomeno, secondo Rossi, «servirebbero molte più risorse a livello sia cantonale che federale, una maggiore collaborazione tra polizie, una più intensa attività di intelligence. Con i tre investigatori che in Ticino devono gestire mille fronti non si può estirpare la ‘malapianta’. Ma è anche un problema di organizzazione: dato che poi la palla passa al Ministero pubblico della Confederazione e che gli agenti locali devono coordinarsi con la Polizia federale, è importante agevolare il lavoro di squadra tra organizzazioni diverse. Invece agiscono spesso in modo macchinoso e frammentario».

C’entra anche la volontà politica. «È interessante notare come gli atti parlamentari ticinesi in materia vengano molto spesso da destra, a Bellinzona come a Berna. Segno forse di un certo disinteresse per il tema da parte della sinistra, naturalmente con alcune eccezioni». D'altronde i ruoli si mescolano e si rovesciano alla conta dei voti, quando in ogni caso paiono spesso prevalere altri interessi: «Basti pensare che un paio di settimane fa il Parlamento si è rifiutato di costringere avvocati e consulenti a una vera compliance. Ha perfino impedito di abbassare il limite di 100mila franchi per le transazioni in contanti presso i compro-oro, quando sappiamo che proprio l’oro è un altro strumento di riciclaggio semplice e sottratto ai controlli che vigono per il sistema bancario». In effetti, come notato ad esempio dal consigliere nazionale socialista Baptiste Hurni, la nuova legge contro il riciclaggio consente comunque ad avvocati e consulenti di spiegare a un cliente come riciclare denaro, senza conseguenze legali purché non partecipino direttamente all’illecito e senza obblighi di denuncia. Il rischio è «che si arrivi a cambiare le regole solo quando la comunità internazionale ci costringerà a farlo. Finora continuiamo a prendere tempo nel rimpallo di responsabilità tra Berna e cantoni, a raccontarci che in Svizzera va tutto bene, che possiamo gestire il problema da soli e senza troppi vincoli e controlli. Ma non è così: ci stanno richiamando le autorità di mezzo mondo. L’Unione europea, il Gafi (Gruppo di azione finanziaria internazionale contro il riciclaggio di denaro, ndr), Transparency International. Rischiamo di arrivare tardi, quando la colonizzazione è già avanzata, e di fare anche una figuraccia. Come se la Svizzera non godesse già di una pessima reputazione globale a causa del suo passato di paradiso fiscale».

Infiltrazioni

Un altro interrogativo, intanto, riguarda il rapporto della ‘ndrangheta e di altre mafie con lo Stato. «Mentre il terrorismo vuole distruggere la struttura pubblica, alla ‘ndrangheta fa comodo averne una. Ne ha bisogno per permessi, appalti, penetrazione del territorio. Non mi stupirebbe se prima o poi anche in Svizzera si arrivassero a scoprire scambi di voti o infiltrazioni a livello comunale». Nel frattempo, «questo tipo di criminalità mantiene una mentalità antropologicamente arcaica, ma manda i figli a studiare a Harvard o al Mit. Si preparano quindi a sfruttare tutte le opportunità di business illegale che si presentano via via: ad esempio le criptovalute, strumento ideale per operare tramite prestanome e attività di comodo». Sempre un passo avanti rispetto alla legge.

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