In un nuovo libro Madeleine Rossi racconta una mafia potente, onnipresente e destinata a crescere ancora con la crisi post-Covid
«Lo vedi questo quaderno?». La domanda viene da Madeleine Rossi, giornalista specializzata nelle attività delle mafie italiane in Svizzera. Lo spessore del taccuino è di pochi millimetri. «Un milione di franchi in banconote da mille è così, se lo metti sottovuoto. Lo puoi infilare sotto un sedile, in una Bibbia. Difficile che qualcuno se ne accorga». Per parlare di criminalità organizzata Rossi parte dal denaro, perché ricorda un vecchio monito del magistrato Giovanni Falcone al collega ticinese Paolo Bernasconi: «Dopo i soldi della mafia arriveranno in Svizzera anche i mafiosi». Ora sono passati trent’anni e in effetti di mafiosi ne sono arrivati parecchi, non solo siciliani: in Ticino e nel resto della Confederazione è anzitutto la ‘ndrangheta a sfondare. Rossi ne parla in un volume appena stampato dalle edizioni Attinger – ‘La mafia en Suisse, au cœur du crime organisé’ – «uno studio quasi entomologico» del fenomeno, incredibilmente scorrevole eppure ricco di storie, sorprese, implicazioni che lei stessa definisce «vertiginose».
Certo, sono lontani gli anni delle inchieste clamorose sul riciclaggio e il narcotraffico, di Pizza Connection e Lebanon Connection, «ma questo non significa che la criminalità organizzata se ne sia andata, anzi. Clan potentissimi come la cosca Ferrazzo sono ancora qui in Ticino, intimidiscono i loro stessi compaesani, la polizia e le istituzioni non riescono a liberarsene. Anche perché gli investigatori che se ne occupano sono solo tre, e il coordinamento con la Fedpol e tra gli inquirenti cantonali e quelli federali, secondo molti osservatori locali, non è ottimale. Per fare di più servirebbero risorse aggiuntive, ma allora ci vuole più forza di volontà. Volontà politica».
Neppure la fine del segreto bancario è stata sufficiente a invertire la tendenza, «anche perché si trovano sempre un prestanome, un compro oro, persone e sistemi fatti apposta per ripulire il denaro, tanto più che le leggi svizzere, incluse le più recenti sulle fiduciarie, hanno ancora maglie troppo larghe. Come ha detto un giudice istruttore francese ai suoi tempi, sono leggi ‘fatte per contadini che al sabato sera suonano il corno delle Alpi’».
Invece il richiamo in cui soffia la ‘ndrangheta è quello dei soldi, «tanti soldi, contanti pronti da investire ad esempio nei bar che vedi qui attorno. Quelli che cambiano arredamento ogni sei mesi e magari servono 300 franchi di caffè e tramezzini al giorno, ma emettono scontrini per 3mila, così da ‘pulire’ la differenza. Attività che compreranno sempre più dagli esercenti onesti messi in crisi dal Covid-19, nel silenzio e nella complicità di chi un po’ ha paura, un po’ è con le spalle al muro o vive di un certo indotto». Secondo un sondaggio, ricorda la giornalista, «in Lombardia dall’inizio di questa crisi un ristoratore su cinque è stato contattato da investitori in odore di mafia: difficile credere che in Ticino non accada lo stesso».
Magari basterebbe qualche controllo incrociato per scoprire di più. Ma Rossi – che ha girato l’Italia in lungo e in largo, ha parlato con i principali magistrati e poliziotti dell’antimafia, ha letto le carte dei processi vedendo spesso ricorrere nomi e luoghi legati al Ticino e alla Svizzera – teme che a mancare sia anzitutto la consapevolezza: «Se almeno in Ticino ci si preoccupa ad esempio dei permessi facili e si ha presente il problema, non si può dire lo stesso oltre Gottardo. Tra l’altro molti degli atti e delle interrogazioni a Berna vengono da ticinesi». Una scorsa alle tabelle in fondo al libro rivela tra l’altro un aspetto interessante: vengono quasi tutte dal centro e dalla destra. «Molto attivi sono ad esempio Fabio Regazzi e Marco Romano (consiglieri nazionali Ppd, ndr) e a livello cantonale Giorgio Galusero (granconsigliere Plr ed ex tenente). Poi si vedono molti atti di Lega e Udc, che però tendono a legare il fenomeno a una demonizzazione più generale degli stranieri. D’altra parte, la sinistra pare guardare al problema con un idealismo che sconfina nel buonismo».
Ma la politica è distratta anche perché lo è l’elettorato, anche perché «le mafie si nutrono di legami familiari e si muovono nell’ombra, non ci si può aspettare di scorgere il mafioso-tipo con mitra e Borsalino. Infatti quando ne arrestano la reazione dei vicini è spesso stupita, del tipo ‘era molto gentile’, ‘salutava sempre’». Anche per questo «è importante sensibilizzare, informare, come si propone di fare il nuovo Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata» dell’Università della Svizzera italiana. Una messa in rete di informazioni altrettanto importante deve avvenire a livello di autorità, come cerca di fare la piattaforma della Fedpol denominata Coc (Countering organized crime), che «permette di incrociare dati anagrafici, catastali, patrimoniali in un’ottica simile a quella della prevenzione antiterrorismo. Questo ha già consentito di riaprire inchieste su quelli che in un primo tempo parevano crimini comuni. Magari prima o poi ci accorgeremo che c’è stato anche qualche omicidio». Importante sarebbe infine che cittadini e istituzioni si parlassero anche tra di loro: «Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri apre la porta del suo ufficio a tutta la cittadinanza un pomeriggio a settimana. Gli tocca sorbirsi anche il balordo che dice di aver visto un Ufo, ma tra i tanti testimoni raccoglie anche segnalazioni decisive. Alcuni si fanno tutta la strada dalla Svizzera e dall’Austria perché qui non sanno dove trovare ascolto. Ecco, sarebbe bello se qualcosa del genere si facesse anche presso l’antenna Fedpol di Lugano».
Il problema non è ‘solo’ il riciclaggio «dei proventi di droga, prostituzione, traffico di esseri umani, alimenti e agricoltura, beni archeologici e tutto quello che è redditizio trattare illegalmente». Ci sono anche «le armi e le munizioni, che qui in Svizzera è facilissimo procurarsi. Basta entrare in un’armeria per procurarsi ‘confetti’ o ‘vitamine’, come si chiamano in gergo i proiettili, ma anche pistole e fucili. Poi ci sono quelli rubate nei poligoni, quelli dell’esercito rivenduti anche solo dal privato cittadino a corto di soldi, che incassa qualche franco e ne denuncia il furto fittizio». Armi usate per agguati e omicidi, e mica solo pistole e fucili convenzionali: «Dall’esercito svizzero sono arrivati in Calabria anche fucili anticarro, per sventrare le auto blindate dei boss». Poi c’è lo spaccio di droga in Ticino, dove «anche se spesso finiscono nelle inchieste persone che paiono lontane dai clan, ad esempio complici di altri Paesi, spesso a capo delle filiere di traffico ci sono proprio le mafie italiane».
Soprattutto c’è una penetrazione economica che dai caveau arriva fino ai cantieri, dalla finanza all’economia reale. Rossi ritiene emblematico il caso del tunnel di base del Ceneri. Era la notte del 22 settembre 2010 quando una roccia si staccò da una delle pareti durante lo scavo: sette metri sotto c’era il minatore calabrese Pietro Mirabelli, che morì schiacciato. “Quando gli inquirenti arrivarono – notò l’allora procuratore generale John Noseda –, il luogo dell’incidente era stato completamente stravolto, con l’aggiunta di misure di sicurezza in precedenza non presenti. Ma nessuno dei trenta operai ha voluto parlare, perché avevano paura per il loro lavoro e la loro famiglia”. Non si sono trovati colpevoli per quell’incidente, ma Rossi ricorda: «La ditta responsabile del cantiere si era vista ritirare il certificato antimafia in Italia per subappalti illeciti, e dopo il crollo di un tunnel era stata implicata in un’inchiesta contro la ‘ndrangheta a Reggio Calabria». Ora, «si può dire che gli incidenti capitano, che il lavoro di minatore è pericoloso. Resta il fatto che in quel tunnel – dove molti operai incluso Mirabelli avevano denunciato condizioni di lavoro disumane – grazie a un appalto a prezzi stracciati si sono inseriti interessi economici in odore di ‘ndrangheta. C’è solo da sperare che non si sia risparmiato anche sui materiali e la sicurezza dell’infrastruttura». Il fatto che si tratti di una delle opere-simbolo della Svizzera contemporanea «fa capire quanto le mafie italiane possano penetrare fino al cuore della Confederazione».
Anche per questo servono regole e attenzioni speciali: «Se non si fanno controlli, si lasciano proliferare i subappalti e si cede sempre alle lusinghe dell’offerta più economica, allora si spiana la strada alla ‘ndrangheta. A restare schiacciati sono i lavoratori, ma anche la cittadinanza nel suo complesso. Perché più questa presenza e questo potere aumentano, più finiranno per colonizzare i processi decisionali e le sedi politiche». Ormai, conclude Rossi, «uno scandalo di corruzione che coinvolga funzionari pubblici e rappresentanti eletti non è questione di se, ma di quando».
Il libro di Madeleine Rossi può essere ordinato sul sito della casa editrice oppure nelle librerie in Svizzera romanda