Alessandra Cerreti, pubblico ministero a Milano, suona la sveglia sulla penetrazione della‘ndrangheta in Ticino e in Svizzera: ‘C’è chi le apre le porte’
«Lo capisco che è difficile, lo so che rappresenta un notevole sforzo culturale, specie se non ci si confronta già da tempo con la violenza e il degrado generati dalla ’ndrangheta e dalle altre mafie. Però è l’unica soluzione: aprite gli occhi». Il monito viene da Alessandra Cerreti, Pubblico Ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, prima ancora in forza a quella di Reggio Calabria. Messinese, in magistratura dal 1997, ex giudice a Milano, da Pubblico Ministero è stata titolare di inchieste che hanno portato a centinaia di arresti tra Lombardia e Calabria. Alessandra Cerreti sa che il fenomeno potrà essere contrastato solo se sapremo riconoscere i segnali della sua presenza: «Un nemico lo si può sconfiggere solo se lo si conosce». E questo, spesso, non è il caso.
Intanto, come sta la ‘ndrangheta?
Abbastanza bene, temo. Da anni ormai, in Italia, diverse inchieste ci hanno permesso di infliggerle notevoli colpi giudiziari, di comprenderne l’operatività globale e la natura unitaria. Ma da qua a pensare che sia in difficoltà, ce ne passa: si tratta di un’organizzazione globalizzata con interessi, attività e snodi talmente diffusi da rendere complesso contrastarla. Di certo è una lotta che va condotta sul piano internazionale, attraverso strumenti diversificati.
La legge svizzera prevede il reato di partecipazione a organizzazione criminale – articolo 260ter del Codice penale, in vigore dal 1994 – e ha di recente inasprito le relative pene. Cosa manca?
Le leggi in Svizzera ci sono e le recenti modifiche rappresentano indubbiamente un importante passo avanti. Ottima è anche la nostra collaborazione con gli inquirenti svizzeri, pienamente consapevoli del fenomeno anche se spesso, in concreto, per dimostrare l’operatività dell’associazione mafiosa ci si chiede di provare l’esistenza di un reato-fine (ad esempio traffico di droga, armi, estorsioni, eccetera). Ciò rende tremendamente complicato perseguire un fenomeno così sfuggente e pervasivo. Ma al di là di questo il problema è culturale, passa dall’attenzione di tutti a riconoscere i segni di una presenza criminale sul vostro territorio.
Eppure, com’era successo qualche decennio fa in nord Italia, l’impressione è che in Svizzera prevalga ancora la falsa convinzione che “da noi non succede”, o che al massimo si tratti di una presenza finanziaria. E pecunia non olet.
Invece il denaro puzza eccome. Di sangue. E da sotto ai colletti bianchi può spuntare la pistola. Pensare che la penetrazione della ‘ndrangheta in Svizzera non porti con sé grandi rischi sarebbe un errore madornale per la politica e l’opinione pubblica. Lo stesso errore commesso dalla Germania prima che a far suonare l’allarme fosse la strage di Duisburg (sei morti in una pizzeria della cittadina renana nel 2007, ndr). A volte si comincia con un prestito a tassi usurari a esercenti in difficoltà, i quali poi non riescono a onorare il debito ed è quello il momento in cui la ’ndrangheta pretende la cessione dell’azienda. Se il malcapitato tenta di opporsi, si tirano fuori le pistole.
Da noi succede, insomma, e l’abbiamo visto anche ieri.
L’operato della ‘ndrangheta si ripete pressoché identico ovunque: la sua struttura, per quanto federale, risponde a regole organizzative unitarie che si applicano in modo analogo in tutto il mondo, un’entità criminale la cui testa pensante resta però in provincia di Reggio Calabria. Anche in Ticino o nel resto della Svizzera la presenza di ‘locali’ (unità territoriali della ‘ndrangheta, ndr) è ormai pienamente confermata da svariate indagini e ciascuna ha una propria autonomia territoriale sul territorio, ma “passa parola”, ovvero risponde all’apice calabrese dell’organizzazione per gli affari più importanti. E ne rappresenta gli interessi criminali anche in Svizzera, spacciando droga – parliamo del leader mondiale sul ‘mercato’ della cocaina –, trafficando armi, nascondendo pregiudicati, riciclando notevoli quantità di denaro in attività economiche, nel sistema immobiliare e bancario, perfino in bitcoin. Quindi non è assolutamente vero che in Svizzera “non succeda”. Questa è un’affermazione ormai smentita da sentenze definitive, italiane ed elvetiche.
La ‘ndrangheta inoltre ha un’immensa disponibilità di capitali che immette nel mercato economico lecito, così alterandone le regole: l’imprenditore mafioso, ad esempio, non paga le tasse, riduce i costi, così sbaragliando la concorrenza.
Le radici del fenomeno costituiscono anche un problema per i calabresi che vivono qui e vi si trovano ingiustamente associati, con il danno reputazionale che ne consegue. Complice anche un certo pregiudizio antimeridionale, si tende a pensare che queste comunità proteggano i criminali e ne siano terreno di coltura, costituendo una sorta di ‘zona grigia’ tra boss e onesti cittadini. C’è del vero?
È ovvio che le mele marce siano arrivate anche nascondendosi tra i tanti onestissimi immigrati che ogni giorno contribuiscono al benessere dei Paesi che li accolgono. D’altronde la differenza tra le mafie e la criminalità comune sta proprio nella capacità di penetrazione nel tessuto sociale. Ma attenzione: la zona grigia non è costituita tanto dagli altri calabresi, quanto da tutti quei professionisti e faccendieri, magari elvetici da più generazioni, che spalancano le loro porte ai mafiosi pur di farci affari.
È possibile avere un identikit che permetta di riconoscere questo ‘demi monde’?
È molto difficile definirne un prototipo, perché la presenza della ‘ndrangheta può essere agevolata da terzi in mille modi diversi. C’è il ristoratore con l’acqua alla gola che decide di vendere la sua attività contro un generoso pagamento in denaro da riciclare, l’imprenditore che subisce pressioni per assumere persone in cerca di un permesso che copra le loro attività criminali, il fiduciario che accoglie e gestisce fondi di provenienza oscura senza farsi troppe domande, e così via.
Il giudice Giovanni Falcone disse all’allora procuratore ticinese Paolo Bernasconi che dove arrivano i soldi della mafia, prima o poi arrivano anche i mafiosi. La speranza era che la fine del segreto bancario e le nuove norme antiriciclaggio aiutassero a combattere il fenomeno. Ci eravamo illusi?
Giovanni Falcone si è dimostrato, come sempre, lungimirante. Quelle più recenti sono sicuramente norme utili, resta però il fatto che la Svizzera è un centro fondamentale per il riciclaggio del denaro e per varie attività della ‘ndrangheta. Una parte dei flussi di denaro resta ‘circolare’ tra Italia e Svizzera, mentre in altri casi quest’ultima funge da ponte verso l’Est o i paradisi fiscali. In ogni caso, se i soldi passano da qui invece di andare direttamente alla destinazione finale, evidentemente è perché nella Confederazione trovano condizioni favorevoli. Il sistema insomma, più che migliorare, si è evoluto.
Spesso chi si trova coinvolto in inchieste legate alla criminalità organizzata – dal gioielliere al fiduciario, dal commerciante all’imprenditore edile – spiega che non sapeva da dove venissero soldi e persone poi rivelatesi mafiose.
Questo in parte è vero, perché gli ‘ndranghetisti non si presentano con la patente che ne attesta l’affiliazione o con la lupara, ma arrivano preceduti da colletti bianchi che fanno da intermediari. Però anche quella della buona fede rischia di essere una scusa: se non si sa da dove arrivano i soldi, se la disponibilità è anonima e in contanti, se si riceve l’offerta di prestiti esterni al normale circuito bancario, non si può poi dire ‘non lo sapevo’.
C’è il rischio che la ‘ndrangheta metta le mani anche sulla politica locale?
Non mi sento di dare giudizi specifici sul Ticino, che non conosco direttamente. Però gli ‘ndranghetisti e i loro faccendieri votano. Non solo: data la loro influenza hanno i loro pacchetti di voti, tanto che spesso, come abbiamo verificato in Italia in più di un’inchiesta, sono i politici stessi ad avvicinarli per beneficiare della loro influenza. Lo abbiamo verificato in molte occasioni, per cui è un rischio che non si può escludere. Un’altra cosa: la ‘ndrangheta non è né di destra né di sinistra, va con chi le fa comodo.
Le inchieste antimafia sono spesso operazioni titaniche, che sfociano in centinaia di arresti in contemporanea. Qualcuno vi accusa di agire un po’ troppo per le spicce, senza sufficiente garantismo e con qualche mania di protagonismo.
È una polemica che viene alimentata da decenni e che dimostra una totale ignoranza del sistema giuridico italiano. Sistema che per la lotta alla criminalità organizzata è tra i più evoluti al mondo e non sacrifica in alcun modo le garanzie costituzionali degli indagati. Esistono strumenti speciali, come la possibilità di prolungare i termini di indagini giocoforza molto complesse, di accedere in modo relativamente più facile allo strumento delle intercettazioni, ci sono le misure di prevenzione antimafia, il carcere duro per i capi mafia. Questi costituiscono strumenti irrinunciabili per contrastare un reato associativo – sempre estremamente complesso da provare – che necessita di modalità investigative diverse da quelle riservate a un ‘reato-fine’, come un omicidio o una rapina. In questo senso anche la dimensione di indagini e processi è fondamentale per comprendere la complessità della struttura associativa mafiosa: come aveva già intuito Falcone ai tempi del maxiprocesso di Palermo contro Cosa Nostra (1986-1992, ndr), l’unico modo per comprendere pienamente il fenomeno mafioso è indagarne e dimostrarne l’esistenza e l’operatività nel suo complesso, non limitarsi a contrastare la singola cosca mafiosa. Proprio la parcellizzazione del fenomeno ha indotto per decenni alla sottovalutazione della ‘ndrangheta anche in Italia: si credeva si trattasse di un mero insieme di cosche separate tra loro, invece che di un’unica organizzazione mafiosa.
In Italia, però, nomi degli indagati e intercettazioni circolano molto liberamente sui media, col rischio che i processi si facciano lì invece che nelle aule di giustizia e che degli innocenti si trovino rovinati per sempre. È giusto?
Ritengo assolutamente deprecabili l’anticipazione di giudizio e l’uso dei nomi fatto da una parte dei media. Bisogna, però, tenere conto del fatto che la fase della pubblicazione degli atti segue normalmente quella dell’esecuzione delle misure cautelari, momento in cui il fascicolo diventa legalmente conoscibile per tutte le parti. Poi ci possono anche essere eccessi da parte dei giornalisti, ma se chiede a loro molti le diranno che occorre tutelare la libertà di stampa e di informazione su reati così pervasivi e pericolosi. Certo, si tratta sempre di trovare il giusto equilibrio tra libertà di stampa e diritti individuali, comunque tutelati dalla Costituzione.