L’economista della Supsi Spartaco Greppi commenta la strategia economica prospettata da Ticino Manufacturing dopo l’adesione al salario minimo
«Qualche anno fa la Toyota doveva decidere se produrre un suo piccolo Suv in Canada, dove la manodopera costa parecchio, oppure in Alabama, in un posto dove la gente vive nelle baracche e si può pagare molto meno, vista la scarsa educazione e la disperazione sociale. Scelse il Canada». Sembra che la prenda larga, l’economista della Supsi Spartaco Greppi, quando gli chiediamo di commentare la minaccia secca di Ticino Manufacturing: se ci tocca pagare un salario minimo, allora certi mestieri dovremo spostarli altrove.
Ma il punto sulla questione arriva subito: «Non si può accettare questa doppia pressione, tanto sui residenti quanto sui frontalieri. Se un’impresa ha un modello produttivo compatibile con le esigenze del territorio, con la possibilità di creare valore aggiunto e innovazione, se può impiegare certi profili, allora è giusto che se ne agevoli l’operato. Se invece punta tutto sul basso costo della manodopera – con quello che comporta in termini di insufficienze sociali, di sfruttamento e di costi per la collettività – allora è altrettanto opportuno interrogarsi sulla sua ragion d’essere».
L’obiezione di Ticino Manufacturing è chiara: tra competizione internazionale e possibilità di delocalizzare chissà dove, "certe lavorazioni industriali" che "seppur meno complesse, sono funzionali ad altre a più alto valore aggiunto" sono a rischio, e "sopprimere le prime rischia di danneggiare l’intera attività aziendale e l’indotto connesso". Greppi non appare particolarmente convinto, e osserva semmai che «non possiamo accettare un patto sociale al ribasso, col rischio di innescare un circolo vizioso con enormi costi per la collettività. Sappiamo che le imprese con funzioni di produzione sostenibili sono pronte a spostarsi perfino nelle città più costose al mondo, come Zurigo. Questo perché non cercano di speculare, ma investono piuttosto su un’eccellenza che altrove – l’Alabama di cui si parlava prima, tra tanti esempi – non possono trovare».
Per il docente, che tiene da anni l’orecchio sul terreno del lavoro in Ticino, «invece di derogare alle regole, assecondando anche politicamente certe scorciatoie, sarebbe meglio investire su filiere che non puntino tutto sulla disponibilità di manodopera a basso costo. È così che si approfitta di una crisi come questa – dettata dai prezzi dell’energia e da molte altre insicurezze strutturali – per ripensarsi. Altrimenti ci troveremo sempre con settori zoppicanti, tra capannoni vuoti e imprese improbabili, e sappiamo bene chi alla fine dovrà grattarsi la rogna: tutti noi».