India e Nur raccontano i loro dieci anni di attesa di un permesso di dimora. ‘Possiamo solo dire grazie a chi ci ha dato una mano’
L’appuntamento è all’ingresso del Parco delle Gole della Breggia. Luogo inusuale per un incontro, viene da pensare. Non per India e per Nur: non lo hanno scelto a caso (lo capiremo strada facendo). Poco lontano c’è il laghetto del Ghitello, di cui anche oggi che è metà settimana qualcuno gode il panorama. Un angolo di natura nel Mendrisiotto urbanizzato che conoscono bene. Oggi, però, per i due giovani – lei 20 anni compiuti da una settimana, lui 24 anni – è davvero un altro giorno. Così anche i luoghi di sempre hanno tutto un altro perché. Gli occhi sorridono; nemmeno la mascherina riesce a trattenere la gioia di non essere più dei cittadini per modo di dire ora che da Berna è arrivato il nullaosta al permesso di dimora per loro e la mamma Munaja. Il sentimento più forte? Quello della gratitudine. «Vorremmo tanto ringraziare tutte le persone che ci hanno aiutato e sostenuto, il vescovo Lazzeri, i politici. Tutti quanti – ci ripetono a una voce, senza stancarsi –. Questa è una esperienza che non dimenticheremo mai. È una parte di noi. E ci ha fatto riflettere. Un giorno dovremo essere, pure noi, aperti ad aiutare chi si troverà nella stessa nostra situazione. Dire ‘grazie’, quindi, è il minimo».
Addis Abeba-Ticino: il loro è stato un lungo viaggio. Quando ha lasciato la capitale dell’Etiopia India aveva solo 9 anni. «Cosa ricordo? In quella città mi viene alla mente soprattutto il mio doposcuola – rievoca la giovane –. Nur che cuciva e io che vendevo quello che potevo con la mia bancarella portatile, incenso, caramelline. E gli amici, i familiari, la nonna». Avete ancora dei contatti con i vostri cari laggiù? «I contatti sono difficili, ma anche se raramente con alcune persone li abbiamo mantenuti».
Cosa ti porti dentro delle tue origini? Cosa custodisci gelosamente? «Anche se siamo cresciuti qui, in Svizzera, della nostra tradizione abbiamo molto in noi – ci conferma India –. Tante cose anche pratiche, detti, piccoli gesti che si danno per scontati ma che notiamo nel confronto con la gente di qui. Non saprei fare un esempio adesso. Ma di sicuro citerei l’unità, il fatto di vedere il vicino di casa come uno di famiglia. Posso entrare in casa sua come se fosse la mia, e viceversa. Anche solo per prestarsi lo zucchero o il caffè; o a maggior ragione per affidare un bambino. Lì c’è un senso di comunità molto forte».
Un mondo che a un certo punto, dieci anni or sono avete lasciato, destinazione la Svizzera. Cosa vi ha spinto a fuggire, a cercare casa altrove? «Mia mamma in quel momento era in Sudan. È stata lei a organizzare il nostro viaggio con l’aiuto di conoscenti. Il suo unico obiettivo era quello di darci una possibilità per un futuro migliore». Il 24enne si ferma di botto: è il passato che torna. «In tutta sincerità parlare dei momenti di sofferenza non mi piace. Mi fa stare male. So che il vostro lavoro – comprende rivolto a noi giornalisti – è quello di farci delle domande. Ma preferisco fermarmi qui. Lascio riaffiorare solo le cose belle, che mi aiutano a guardare avanti. Il passato più dolente lo tengo per me, come una parte della nostra vita».
Facciamo un passo avanti, siamo all’arrivo in Svizzera, giusto un decennio fa. «Come detto mia mamma ha voluto permetterci di costruire un futuro altrove, in Europa. E siamo approdati in Svizzera in Ticino: e siamo stati fortunati – rende omaggio Nur –. Quando siamo arrivati qui, del resto, eravamo ragazzi e questo ci ha reso più facile integrarci, con semplicità».
A quel punto è iniziato un altro viaggio. Il primo approdo è stato Chiasso. Nur e India qui raccontano a una voce: «Dove siamo rimasti circa cinque giorni. Poi ci hanno spostati a Biasca, quindi a Tenero per un mese giusto in un albergo. In seguito siamo stati trasferiti a Paradiso al centro della Croce Rossa. Lì quanto abbiamo vissuto? Cinque mesi mi pare. In quel momento ci hanno assegnati a Biasca, ma abbiamo potuto abitare in un appartamento e frequentare la scuola». India entra alle Elementari; Nur segue prima un anno integrativo, poi accede all’apprendistato. «Sono assistente verniciatore», ci dice con la speranza di poter completare la formazione. In quel tempo viene loro permesso di conquistare una quasi normalità.
L’anno fatidico è il 2016: la famiglia richiede il rinnovo dei documenti, «che non sono più tornati indietro». In quel periodo Nur sta terminando l’apprendistato. Per loro significa tornare in un campo, a Cadro. Da quel momento la vita resta in sospeso: il giovane sa che non potrà firmare un contratto di lavoro, la sorellina riceve un ‘lasciapassare’ e potrà continuare la scolarizzazione, «in via eccezionale». «Grazie all’aiuto dei miei docenti e all’interessamento di due ex direttori (delle Medie di Morbio e del Centro professionale commerciale), che ci hanno dato una grandissima mano – racconta grata India –, sono riuscita a iscrivermi al Cpc di Chiasso. Quando sono andata ad annunciarmi ero timorosa: non avevo alcun documento da presentare. Pensavamo avrebbero detto di no, invece sono stati molto comprensivi e hanno fatto tutto quello che potevano. Infatti, sono arrivata in terza e a giugno sosterrò gli esami: mi diplomo», fa sapere con orgoglio la ventenne (nel cassetto il sogno di diventare una infermiera).
Ora India sa che per lei questo può essere un punto di partenza. La scuola, i prof e i compagni di classe, d’altro canto, sono stati un volano formidabile nella sua storia. È dalla loro solidarietà che nel 2019 scaturisce una vera e propria mobilitazione civile. «Ricordo ancora, a Biasca, un episodio di quando mi stavano per trasferire a Cadro – sorride –. L’avvocato di allora ci aveva detto che una delle iniziative con cui si poteva spostare qualcosa era una raccolta di firme. E lo avevo confidato ai miei amici. Allora in prima media i miei compagni hanno preso un foglio protocollo a quadretti e ci hanno scritto ‘Vogliamo che India resti a Biasca’, firmando con i pennarelli colorati. Poi mi hanno consegnato quel foglio invitandomi a darlo al legale. In quarta media a Morbio è stata promossa, invece la ‘vera’ petizione. Con grande concretezza ciascuno dei ragazzi ha cercato di aiutarci e siamo arrivati sin qui, senza quasi accorgercene».
Quasi un crescendo rossiniano di slancio umanitario. Non si può sottacere, però, che India molto lo deve a sé stessa e al suo coraggio. Quel coraggio di dare voce al suo dolore, accolto in particolare dalla sua insegnante di italiano, Dania Tropea. «E per fortuna ha avuto coraggio», sottolinea il fratello. «Non temo le parole (come si è capito sono una chiacchierona), che per me rappresentano anche uno sfogo – si concede la ragazza –. Così ho parlato della nostra condizione con i miei compagni, con la mia docente; senza neanche pensare che ciò mi avrebbe aiutato ad arrivare sin qui. E adesso che ci penso, in realtà ho solo messo la prima pietra; la casa l’hanno costruita loro».
Un cantiere durato però un pezzo di vita, dieci anni da precari. E non sono pochi, soprattutto per un ragazzo come Nur, pronto a spiccare il volo. «Ricordo che mio fratello non voleva mai che gli si comprassero degli abiti nuovi: ‘Tanto non li metto se dobbiamo restare poco, abbiamo le restrizioni, sto dentro casa e poi per fare le valigie avere pochi vestiti aiuta’, ci rispondeva. Piccole cose quotidiane che a noi pesavano tanto».
«Infatti, la prima cosa che ho detto a mia mamma martedì è di ricordarsi di me se va ad acquistare degli indumenti», entrambi si liberano in una grande risata. «È un po’ dire che domani è Natale; e la notte che non finisce mai – fa capire Nur –. Aspetti tutto l’anno, poi quando arriva quel giorno (come è accaduto martedì, ndr), quasi non ci credi dopo un’attesa così lunga. Ci vuole tempo per capire cosa sta succedendo. Sembra un film, un sogno». India se ne è resa conto a scuola. «Se ne sono accorti anche i miei docenti al Cpc. Hanno assaggiato un po’ della nostra ansia e aspettato con noi con pazienza».
In ogni caso India, Nur e la loro mamma in questi anni non sono stati mai soli. Lo si legge ancora nei loro occhi che un tale moto civile proprio non se l’aspettavano. «Soprattutto – annota Nur – da coloro che non conosco ma che hanno saputo della nostra situazione e mi mostrano la loro preoccupazione. Davvero un sollievo. Sapevo che se fosse successo qualcosa di male ci sarebbe stato qualcuno che tiene a noi, come se fossi uno di loro. Questo ci ha fatto sentire a casa; che non siamo diversi dagli altri. Sì, a casa. Cosa ne pensi India?», si rivolge alla sorella.
«Un po’ di tempo fa mi hanno chiesto se ero felice di vivere qui, in Ticino – aggiunge la ragazza –. Sì, ne sono felice. Vivere, però, con l’ansia di essere rimpatriata, non me la fa godere. Come si può essere felici a vivere in bilico. D’altra parte, abbiamo ricevuto un tale supporto da parte di tante persone, con le firme, le lettere le e-mail; anche chi non sentivo da tanto tempo si è fatto vivo per dirci che non si era dimenticato di noi. Che c’era». Nur non sa se al loro posto avrebbe fatto la stessa cosa. Riconoscersi negli altri, del resto, è importante. Sapere di essere conosciuti lo è altrettanto.
In questi giorni era più forte il timore di ricevere l’ennesima risposta negativa (quindi un’ulteriore delusione) o il desiderio che potesse finire bene? «Non avevo più timori – ammette India –. Non che non avessi paura di ricevere un ‘no’, ma a distanza di anni sono diventata più realista, tengo i piedi piantati bene a terra. Se avessero deciso per il rimpatrio, mi sono detta, avrei trovato il modo di andare avanti. Come hanno fatto gli altri, mi convincevo, ce la faremo anche noi. Le difficoltà ci sono sempre state, ovunque. Cambia, certo, il grado di difficoltà. Come abbiamo trovato la forza di ricominciare qui, l’avremmo trovata anche laggiù. Nonostante la delusione». Nur confidava, invece, in chi sta lassù. «Credevo in Dio e che sarebbe andata bene. Ci ha dato la pazienza per tenere duro questi dieci anni; ero sicuro avesse qualcosa in serbo per noi. Comunque fosse andata».
Davanti agli occhi passano, però, le immagini dell’Etiopia di oggi. Arduo pensare di vistare un rimpatrio verso quella realtà, che non ha certo l’aria di essere ‘sicura’. Anche India e Nur, in effetti, si chiedono come possa capitare, sebbene non si permettano di giudicare l’operato altrui. India, dal canto suo, non può dimenticare l’ultima volta che è stata formulata la fatidica domanda: ‘Voi siete disposti a rientrare volontariamente?’. «A quel punto – ci dice con candore – ci siamo guardati e abbiamo chiesto se leggono le notizie. Il nostro interlocutore ci ha risposto: ‘Lo faccio perché è il mio lavoro. So che sono domande assurde ma le devo porre; è la procedura’. Allora cosa avrebbe risposto al nostro posto? Pure noi non sappiamo cosa rispondere».
Questo era il vostro ieri, e il domani? «Sino a ieri il futuro era incerto. Adesso – ci mette a parte India – iniziamo a farci un pensierino. Gli stessi miei compagni, saputa la notizia, hanno cominciato subito a progettare cose da fare insieme. Io non ho ancora assimilato tutto quanto è accaduto: lo farò un passo alla volta». Ancora, confessa Nur, si fa fatica. Forse quando terranno tra le mani il permesso realizzeranno che è tutto vero. «Tutto ora avrà un altro sapore».
Cosa è per voi oggi la Svizzera? Con cosa la identificate? «Con il suo popolo – ci dice decisa India –. Senza di esso non sarebbe niente, solo montagne e città. Di sicuro per noi adesso è anche casa». Per Nur anche i luoghi hanno importanza. «Un Paese è il suo popolo ed è i suoi luoghi, con la loro memoria. Vi ho portato qua – ci dice guardandosi attorno, lì sul limitare del Parco delle Gole della Breggia –, dove trascorriamo le nostre vacanze, perché ci siamo sentiti a casa (come è accaduto a Biasca). Qui mi sento libero. La Svizzera mi ha fatto sentire una persona completa».
Parafrasando Eduardo De Filippo, prima o poi la notte finisce. Per India e Nur è passata.