Il sovietologo Nicolas Werth racconta a Roberto Antonini la vera portata delle purghe staliniane
Delle purghe staliniane che colpirono i vertici politici sovietici si pensava di sapere più o meno tutto dopo il XX congresso del partito comunista, nel rapporto presentato da Krusciov nel 1956. Ma le rivelazioni sulle fucilazioni di decine di migliaia di persone nascondevano una realtà ben più ampia: una carneficina che può essere considerata il più grande massacro deciso da uno Stato in tempo di pace. Grazie alla progressiva apertura degli archivi a partire dagli anni 90 del secolo scorso, è venuta a galla una verità storica agghiacciante: tra il luglio del 1937 e la fine del 1938 furono fucilate 750mila persone: contadini, segretarie, operai, bibliotecari, funzionari, massaie, docenti, considerati nemici del popolo per le loro idee, presunte frasi o gesti inappropriati o semplicemente perché di origine straniera. Un altro milione di persone circa fu condannato a dieci anni nei Gulag, dove gran parte morì di stenti. Gli ordini furono firmati direttamente da Stalin e dal responsabile della polizia politica (Nkvd) Nikolaj Ezov, sulla base di liste di persone da eliminare preparate dalle diverse cellule regionali dei servizi segreti o del partito. Rete Due ha ospitato, a ‘Laser’, lo storico di riferimento di queste scoperte, il sovietologo Nicolas Werth che ha ricostruito il tutto in ‘Nemici del popolo. Autopsia di un assassinio di massa’ (Il Mulino 2011).
Professor Werth, parliamo del Grande Terrore, una pagina di storia tra le più truci. Un tema oggi noto, almeno in parte, ma del quale si ha l’impressione di non voler parlare troppo.
È esatto. Sicuramente è così rispetto ad altri crimini di massa di questa portata. Se ci pensiamo, 800mila fucilati in 16 mesi, è più o meno l’equivalente – ahimè – in cifre, del genocidio in Ruanda. Ma, il problema è che a questa tragedia non è stata data un’etichetta: non è formalmente genocidio, non è crimine contro l’umanità. E purtroppo abbiamo l’impressione che – in questi ultimi anni – per questi crimini, avere un’etichetta sia indispensabile. Perché solo quando c’è un’etichetta, allora se ne parla.
Quando un genocidio è riconosciuto in maniera ufficiale, quindi ovviamente l’Olocausto come genocidio degli ebrei d’Europa, il genocidio in Ruanda, il genocidio degli Armeni, ecco che allora per fortuna se ne parla.
D’altra parte accade invece che vi siano dei casi al limite di questo ambito, come per esempio la grande carestia in Ucraina, che ha comunque prodotto circa 4 milioni di morti, e di cui non si parla in nessun modo. Possiamo immaginare che in passato si evitasse di farlo anche per la forza politica rappresentata dal partito comunista francese, per l’influenza che l’idea comunista aveva comunque negli ambienti intellettuali. Mentre oggi non se ne parla soprattutto perché si tratta comunque di una zona grigia della storia, che non ha ancora ricevuto la sua etichetta.
Il suo lavoro sul Grande Terrore pone l’attenzione su uno scenario di portata davvero enorme.
Il Grande Terrore aveva in realtà avuto due facce. Aveva un volto pubblico – che si manifestava nei grandi processi – ma che aveva anche assunto l’aspetto meno spettacolare delle purghe: una definizione che ritengo debba essere utilizzata per descrivere lo sterminio sistematico di quella che veniva indicata come la “vecchia guardia leninista”, e dunque di quegli esponenti che a loro volta hanno poi permesso l’affermazione di una nuova generazione di quadri, che poi è quella che abbiamo visto assumere il potere negli anni Settanta con i vari Breznev e Gromiko e così via. Ma in seguito, con l’apertura degli archivi, è stato invece possibile accedere progressivamente e comprendere un aspetto che era invece rimasto del tutto segreto e nascosto del tempo del Grande Terrore.
Nikita Krusciov era al corrente di una realtà a noi ignota fino agli anni Novanta?
Sì senz’altro si è dovuto attendere il ’94, ’95, ’96, perché gli archivi si aprissero e fosse possibile realizzare i primi studi scientifici. Io stesso, quando ho scritto il capitolo dedicato all’Urss del Libro Nero del Comunismo – ed era l’anno 1997 – avevo un accesso ancora parziale a tutta questa nuova documentazione. Ho potuto affrontare il tema delle operazioni di repressione di massa, ne ho scritto, ma non avevo a disposizione ancora tutti i dettagli della vicenda, che andava emergendo progressivamente solo in quel periodo.
Devo dunque dire che tutta la verità su queste operazioni di ingegneria sociale, su questo sterminio gestito segretamente da parte del Politburo dominato da Stalin, attraverso il braccio operativo dell’Nkvd per eliminare tutti coloro che venivano considerati dei nemici del regime, emerge in maniera compiuta solamente negli anni Duemila.
Cominciamo dall’inizio. Luglio del 1937, l’ordine 00447 firmato da Stalin e diretto a Nikolaj Ezov, capo dell’Nkvd.
Esattamente. Quello che trovo interessante è che adesso siamo in grado di ricostruire nei dettagli, giorno per giorno e a volte addirittura ora per ora, tutto il meccanismo di questo crimine di massa segreto.
Cominciamo dal capire il perché del luglio 1937. Dobbiamo pensare alla situazione internazionale. È il momento in cui la Guerra di Spagna raggiunge una fase critica e di grande incertezza. È il momento in cui Stalin capisce – e siamo in qualche momento della primavera-estate del 1937 – che molto presto si arriverà a combattere una grande guerra su scala internazionale.
Il dittatore sovietico fa propria la lezione storica di Lenin, secondo il quale qualsiasi grande conflitto internazionale rappresenta un fattore destabilizzante, per qualsivoglia regime politico e, in maniera particolare per l’Unione Sovietica.
Perché proprio per l’Urss? Ma perché Stalin controlla sì con il pugno di ferro il Paese, ma è pienamente consapevole di avere imposto con la forza una serie di brutali trasformazioni dall’inizio degli anni 30, contro gli auspici della maggioranza della popolazione. Tra i contadini e gli operai, come all’interno del partito – seppure in maniera nascosta – c’è ancora un fronte di opposizione alla sua linea, e soprattutto sa che all’interno del paese ci sono dei gruppi sociali, etnici e nazionali che in caso di guerra – questa è ovviamente la sua idea delle cose – andrebbero a costituire una quinta colonna di spie e sabotatori.
Ora, quello che abbiamo appreso grazie all’apertura degli archivi diplomatici è che Stalin seguiva con grande attenzione gli sviluppi del conflitto in Spagna. Attingendo alle fonti di prima mano di cui disponeva ai vertici dell’Nkvd, si era progressivamente persuaso del fatto che un’eventuale sconfitta dei repubblicani avrebbe dovuto essere attribuita alle infiltrazioni – di spie e sabotatori, appunto. Era quella “quinta colonna” di cui parlava spesso il generale franchista Mola. Così come per il generale spagnolo, anche per Stalin appariva dunque indispensabile colpire ed eliminare – con un’operazione profilattica – tutti i potenziali nemici. Si tratta ovviamente di attingere alla sua personale immaginazione: non erano certo persone che avrebbero preso le armi contro di lui, ma tanto basta ad avviare delle operazioni sistematiche contro tutti quelli che riteneva potessero essere i suoi nemici.
Ci sono due linee di intervento principali, giusto?
Esattamente. In questo senso il Grande Terrore è l’ultimo colpo inferto a dei gruppi che già erano stati sospettati, e in particolare questa categoria così vasta e composita che viene chiamata genericamente degli “ex kulaki”. Ma chi sono veramente queste persone? Vede, non sono certo solo dei contadini ricchi a essere etichettati in questa maniera. Si metteva l’etichetta di kulako su tutti quelli che si opponevano alla collettivizzazione. Potevano essere degli intellettuali di villaggio, potevano essere degli istitutori, potevano essere persone legate all’attività religiosa e quindi al clero, ma anche tutti quelli che erano stati membri di partiti socialisti non bolscevichi: i menscevichi, i socialisti rivoluzionari che nelle campagne erano numerosi. E tutte queste erano persone già sottoposte alla deportazione nei primi anni 30. Persone deportate, o costrette a residenza obbligatoria e dunque private dei propri diritti civili. Costretti al lavoro in condizioni prossime al lavoro forzato. Molti di questi erano poi riusciti a fuggire e a ritornare, poiché erano stati inviati in Siberia negli Urali o nel Kazakistan dove il controllo non era così stretto. Per Stalin a questo punto diventano tutte persone da eliminare.
Ora, però, Stalin decide di andare oltre: considera un obiettivo anche quelli che il regime definisce genericamente le “persone del passato”. Sono tutti i membri dell’ancien regime che sono tornati nel paese, gli esponenti del clero che diventano bersagli prioritari. Questa è davvero la prima linea operativa di Stalin.
La seconda linea – linea è proprio un’espressione corrente che veniva usata allora nel linguaggio burocratico della sicurezza e della repressione – mirava invece essenzialmente a tutti quei cittadini sovietici che avevano relazioni anche indirette con il mondo esterno. Cittadini sovietici di origine polacca, tedesca, finlandese, baltica, rumena, ma anche greca, coreana e giapponese. Addirittura i coreani venivano considerati degli agenti al soldo del Giappone, cosa alquanto strana se si considera la natura dei rapporti tra i primi e l’occupante giapponese. Ma tutto questo ha poca importanza rispetto allo spirito e alla natura poliziesca dello stato creato da Stalin e realizzato in quella fase con l’aiuto di Ezov.
Tutte queste persone sono sospettate di essere potenzialmente dei nemici dello stato e delle spie. Persone che dunque in caso di guerra avrebbero rappresentato il bacino dove attingere per creare quella quinta colonna anti-sovietica al servizio della Germania, della Finlandia, dei paesi baltici, della Romania e magari del Giappone.
Oltre a questo legame tra la macchina della repressione e l’imminenza di una grande guerra in Europa, ce n’è anche un altro che porta alla collettivizzazione forzata e alla devastante carestia degli anni Trenta?
Sì, senza dubbio. Perché è evidente che Stalin vive all’interno di quello che è il paese della menzogna. Un luogo in cui si racconta che il socialismo avanza, che i kolchoziani prosperano, ma che è lo stesso paese che ha avuto 6 milioni di morti, negli anni 1932-33. Ci sono stati 4 milioni di morti in Ucraina, un milione e mezzo in Kazakistan, quasi un milione in Russia. E dunque lui lo sa, Stalin comprende che c’è una parte importante del paese che ce l’ha con il regime, e sa pure che è una parte priva di armi o incapace di sollevarsi. Ma è pienamente consapevole del fatto che sono in molti a non credere a una sola parola della sua propaganda, molti che nel profondo disprezzano l’intero sistema.
Nel concreto che cosa accade con l’ordine 00447?
Allora: sappiamo che è il 5 luglio il giorno in cui Stalin firma, d’accordo con Ezov, commissario del popolo alla sicurezza interna e capo dell’Nkvd, un ordine operativo, una circolare, inviata a tutti i responsabili regionali del partito e della polizia politica, che chiede ai responsabili territoriali dei servizi di sicurezza di indicare il numero dei nemici del popolo presenti nello loro rispettive circoscrizioni. Su cosa si basano questi numeri? Beh, evidentemente sul numero di persone che – per una ragione o per l’altra – sono presenti negli elenchi della polizia politica. Ed ecco dunque che nel giro di dieci giorni, due settimane i dirigenti locali, tanto del partito che dei servizi di sicurezza, devono inviare gli elenchi con le loro stime.
Sono due le categorie indicate allo scopo da Stalin ed Ezov: la prima è considerata tra virgolette la più pericolosa, per la quale si prevede la fucilazione a seguito della identificazione e di un passaggio di fronte a un tribunale speciale, e una seconda categoria, chiaramente un po’ meno pericolosa, che dovrà essere identificata, arrestata e – con il passaggio al tribunale speciale – condannata a dieci anni di campo. Non ci sono che queste due possibilità.
E l’accusato non era presente.
Assolutamente no. Non era presente. E non solo non era presente, ma persino la condanna a morte non veniva comunicata all’accusato. Pensate che la sentenza era esecutiva nelle 48 ore successive, ma né l’accusato né ovviamente la sua famiglia veniva messo al corrente del suo destino imminente. Era solo mentre veniva condotto verso le fosse al bordo delle quali avveniva l’esecuzione che lo sventurato si rendeva conto del suo destino. E per quanto riguarda le famiglie si praticava una grande finzione. Si comunicava che il familiare – spesso già fucilato – era stato condannato a dieci anni di reclusione e privato del diritto alla corrispondenza. In questo modo le persone sparivano letteralmente dalla società.
Nel suo libro emergono anche i casi in cui avvengono delle vere e proprie confessioni, naturalmente forzate e sotto costrizione. Quindi comunque esisteva la fase dell'interrogatorio?
Certamente, c'è una fase di istruzione formale del caso. Per quanto riguarda figure di basso profilo, stiamo parlando di un procedimento che richiede qualche giorno, al massimo una settimana.
Ma comunque sì, è giusto quello che lei mi chiede perché sottolinea quanto in realtà ci fosse comunque la costruzione di una sorta di grande finzione. Quindi si istruisce il caso, c'è un’istruttoria e si intuisce che l'obiettivo prioritario sia quello di ottenere delle confessioni. Ora. In realtà che ci sia o meno una confessione non cambia davvero molto. Il fatto che ci sia un’estorsione della confessione indica piuttosto il processo di tortura o comunque di violenza che fa parte di questa costruzione. Conosciamo chiaramente il tema della confessione e dell'importanza che questa assume soprattutto nei casi dei grandi processi pubblici. E lo si può capire facilmente. Ma è vero che anche nei casi minori che si concludono con la fucilazione c'è sempre il tentativo di assicurarsi una piena confessione scritta. In particolare si favoriva l’emersione delle cospirazioni di gruppo, e per questo gli agenti dell’NKVD venivano incoraggiati a inventare dei grandi quadri di cospirazione che riguardavano un gran numero di persone.
Un altro aspetto molto importante da ricordare è che quella è la fase in cui i numeri delle persone destinate a essere fucilate o ad essere condannate a 10 anni di campo letteralmente esplodono. Questo perché le direttive in materia emanate da Stalin e da Ezov, e dirette dunque ai funzionari dei servizi e del partito, raggiungono persone che sono a loro volta sotto fortissima pressione, perché non dobbiamo dimenticare che le purghe colpivano anche all’interno delle due organizzazioni.
A volte erano i funzionari locali a chiedere che gli arresti crescessero, altre volte era il centro che chiedeva di accrescere le quote. È che in questo modo la macchina va fuori controllo, che alla fine l’operazione invece di durare 4 mesi finirà per proseguire per 16 mesi, e che invece di portare a 80mila esecuzioni ne produrrà 800mila, dunque dieci volte di più.
Per quanto mi riguarda è stata un vera e propria scoperta, ma forse per gli storici non è stato proprio così. Mi riferisco al ruolo avuto in questa vicenda da Nikita Krusciov, per molti una sorta di eroe anti staliniano. Invece nel suo lavoro scopriamo che anche lui ha avuto un ruolo in questo massacro.
È senz’altro così, e direi che era qualcosa che nessuno conosceva e che non viene suggerita – a meno che io mi sbagli – nemmeno nell’ottima biografia su Krusciov di William Taubman, pubblicata una decina di anni fa.
Ma è chiaro che lui era uno degli alti dirigenti regionali del partito, e per di più di un distretto molto importante come quello di Mosca. Anche lui, come tutti gli altri dirigenti regionali del partito in posizione analoga, aveva ricevuto l’ordine di fornire delle quote di persone destinate a essere giustiziate. E proprio come gli altri dirigenti del partito a livello regionale ha contribuito a spingere, ad accrescere le cifre tanto delle esecuzioni che dell’invio nei campi di lavoro. E adesso abbiamo dei documenti della metà di agosto, inizio settembre del 1937 – e che ormai sono diventati famosi – in cui è lo stesso Krusciov a chiedere di aumentare di 8mila unità la quota di persone da inserire nella prima categoria. Ci dimostrano che Krusciov ha fatto quello che hanno fatto tutti quelli che si trovavano in posizione analoga. Anticipare le richieste, andare nel senso che ci si aspettava da loro, e dunque accrescere il numero dei complotti smascherati ed aumentare il numero delle persone giustiziate e inviate nei campi.
Ezov che sarà a sua volta giustiziato e che lascerà ai posteri un messaggio singolare “Dite a Stalin che muoio con il suo nome sulle labbra...”
Sì. Si sapeva che Ezov era stato sollevato dalle sue funzioni. In due fasi distinte. In un primo tempo non è più il capo dell’NKVD, ma diventa commissario del popolo al Trasporto fluviale, dunque cade in disgrazia. E poi, qualche mese più tardi viene arrestato con l’accusa di aver ordito un complotto all’interno dello stesso NKVD.
Dobbiamo dire che in fondo Stalin usa in questo caso il suo metodo preferito, nel senso che sostiene che i responsabili locali e regionali dell’NKVD abbiano commesso degli eccessi . È lo stesso metodo cui ha fatto ricorso quando ha fatto marcia indietro nel marzo del 1930 riguardo alla collettivizzazione delle terre. Con il famoso articolo del 2 marzo 1930 dal titolo “La vertigine del successo”, Stalin aveva fatto ricorso a questo metodo quando sentiva che ormai la sua campagna politica rischiava di deragliare, o che piuttosto che ormai più inconvenienti che vantaggi nel portarla avanti. Eccolo dunque affermare che gli uomini che hanno eseguito i suoi ordini si sono spinti oltre, hanno esagerato. Si tratta naturalmente di un discorso che fa ad esclusivo uso interno, poiché per quel che riguarda il grande pubblico, la popolazione sovietica in generale, né l’inizio né la fine del Grande Terrore sono mai stati resi pubblici.
Milleseicento fucilazioni al giorno, un numero enorme, impressionante. Come veniva organizzata questa eliminazione di massa? Sappiamo oggi come erano organizzate le cose?
Allora, sì. Oggi lo sappiamo. Diciamo che dalla metà degli anni ‘90, primi anni duemila, iniziamo progressivamente a conoscere i luoghi segreti delle esecuzioni. Allora, innanzitutto bisogna ricordare che le esecuzioni venivano portate a termine su base regionale. Ogni regione aveva un capoluogo e una decina in media di altri luoghi, che corrispondevano ai capoluoghi distrettuali, dove gli arrestati venivano interrogati, giudicati e dunque giustiziati. La cosa accadeva di rado all’interno delle prigioni. Piuttosto si sceglievano zone chiuse, segrete, spazi che appartenevano alla polizia politica, dove di solito si scavavano delle fosse comuni e di fronte alle quali le vittime venivano di solito giustiziate con una pallottola alla nuca. Ecco, funzionava così. Si procedeva al ritmo di parecchie decine o centinaia di persone per notte, perché lo si faceva di notte. E dunque questi luoghi segreti hanno poi cominciato a riemergere dall’oblio, dalla metà degli anni ‘90 sono stati ritrovati. Alcuni sono immensi, come quello di Butovo, al confine meridionale della città di Mosca dove sono stati contanti circa 25mila cadaveri.
Ecco però a questo proposito è bene dire che chi porta avanti questo lavoro oggi è solo un gruppo di volontari, attivisti dei diritti civili legati all’associazione non governativa Memorial, e che per questo lavoro queste persone vengono anche perseguitate.
Le autorità non vedono la cosa di buon occhio?
Le autorità non vedono per niente la cosa di buon occhio. Ma è vero che accadono anche delle cose strane: per esempio Butovo, che è un vecchio poligono ai confini meridionali dell’area urbana di Mosca, e che è stato tra i primi ad essere per così dire riscoperto alla metà degli anni ‘90. Beh tra i circa 25-26mila corpi sotterrati in quelle fosse è stata calcolato che ci fossero circa un migliaio di membri del clero ortodosso moscovita. È Memorial che ha fatto questa scoperta, ma è stata poi la chiesa ortodossa che ha deciso di investire sul luogo facendo costruire una piccola cappella, dove in sostanza viene ricordata solo una parte delle vittime di quella strage. Ed interessante notare che – coincidenza – Butovo è l’unico di questi luoghi che il presidente Putin ha visitato, ufficialmente, e lo ha fatto accompagnato dal metropolita di Mosca. È l’unico luogo che sotto la “pressione amichevole” – per così dire – della chiesa ortodossa il presidente russo ha legittimato con la sua presenza. E comunque – anche in questo luogo – il riconoscimento si riferisce in maniera esclusiva a quelli che ormai vengono chiamati i “martiri della fede”. Vale la pena ricordare che tra le 800mila vittime del Grande Terrore c’erano anche circa 30mila (trentamila) esponenti del clero. Ma non erano certo l’unica categoria fatta bersaglio della repressione.
Ci ha spiegato le categorie-bersaglio, e poi c’era anche un principio assolutamente perverso che era quello che finiva per coinvolgere l’intera famiglia dell’accusato. Una vera e propria responsabilità collettiva in definitiva.
È vero, una responsabilità collettiva. E d’altra parte bisogna dire che secondo un meccanismo in qualche modo arcaico più del 90% – e anzi a essere precisi parliamo del 92% del totale delle vittime del Grande terrore sono uomini, e non donne. Questo per quanto riguarda il numero dei fucilati. Quindi si prendevano soprattutto gli uomini – e questo è un aspetto che non è mai stato spiegato fino in fondo – si prendevano i capi famiglia, e allora certo che le donne ne hanno sofferto ma non altrettanto, almeno in proporzione. I casi più conosciuti sono quelli delle mogli dei quadri dirigenti, di quelle che venivano anche chiamate “le moglie dei nemici del popolo”. Per loro era stato anche previsto un decreto specifico, che portava a condanne da 8 a 10 anni di reclusione nei campi di lavoro. E dunque c’erano anche dei campi interamente femminili.
Oggi siamo anche in grado di misurare – percentualmente – il coinvolgimento delle èlite che sono state arrestate e fucilate: siamo nell’ordine del 6-7% del totale. E questo indica che il volo pubblico del Grande Terrore staliniano, la parte di cui si parlava diffusamente, fosse in realtà solo il 6-7% del totale. E dunque il 93-94% delle vittime sono in realtà persone normali.
Abbiamo detto che ci sono state migliaia di persone che sono letteralmente sparite, da un giorno all’altro, dalla famiglia, dalla società. Allora vorrei chiederle di spiegarci che tipo di risposta potevamo ricevere i famigliari, quando chiedevano conto dei loro cari?
Allora, da una parte c’era senz’altro una risposta standard. Lo sa che le famiglie attendevano ore, notti, interi giorni e settimane per avere una risposta. Formavano lunghe code di fronte alle prigioni, proprio come nell’immagine magistralmente descritta dalla poetessa Anna Achmatova nel ciclo di poesie intitolato Requiem. La procedura standard prevedeva di fornire esclusivamente risposti orali e di parlare sempre di prigionia in luoghi di detenzione senza diritto di corrispondenza. Questa è la formula ufficiale.
E poi cosa accade un decennio più tardi? Siamo ormai nel ‘47-’48 i condannati non tornano a casa e su di loro piomba il silenzio più assoluto. Poi, una volta morto Stalin, nel 1954 viene diramata una nuova circolare del KGB (come era stato nel frattempo rinominato l’NKVD) Portava la firma del nuovo capo della struttura, che in quell’anno era Ivan Serov. Indicava al personale che, di fronte alle domande dei parenti la risposta da dare sarebbe diventata: “il vostro caro è morto durante la detenzione, di una malattia incurabile”, una malattia qualsiasi che ciascuno si poteva inventare. Il detenuto era dunque morto nell’arco dei dieci anni che avevano fatto seguito alla condanna. E così erano tutti morti, tra il ‘44 il ‘45 o nel ‘46. E questo è quanto: è il punto finale. E la direttiva aggiungeva anche che sarebbe stato fornito un certificato di morte solo in caso di stretta necessità, come per la gestione di una successione o di un divorzio. E questo è davvero quanto, nel senso che fino almeno al 1991-1992 le persone pensavo semplicemente: “è morto nel campo, durante la prigionia”. Ed è solamente dopo la caduta dell’Unione Sovietica che – grazie ad un decreto firmato da Boris Eltsin – i parenti dei condannati hanno avuto accesso ai dossier – che spesso erano molto corti, intendiamoci, a volte poche pagine – e hanno così potuto conoscere per la prima volta la verità È così che hanno saputo che il loro parente, loro padre, loro fratello, o magari in alcuni casi il marito, anche se pensate che erano già passati più di cinquant’anni, era morto fucilato in quel tal giorno e che i suoi resti erano stati gettati in una fossa comune, anche se non sempre si poteva trovare questo tipo di indicazione.