Proposto un nuovo contratto ai lavoratori di Plastifil, Ligo Electric e Cebi. Pronta a firmarlo c'è l'organizzazione TiSin. Ocst e Unia insorgono
Centinaia di lavoratori alle dipendenze di un drappello (sparuto, per ora) di industrie del Mendrisiotto in questi giorni si sono trovati davanti a un bivio: o accettano di firmare il nuovo contratto o rischiano di andare a ingrossare la fila dei disoccupati. Per quasi tutti la risposta è stata scontata quanto obbligata. Perché non c'è scelta, è la motivazione che sale dalle maestranze. Per alzata di mano, e davanti ai proprietari, gli operai di Plastifil a Mendrisio e di Ligo Electric a Ligornetto hanno, dunque, dovuto dichiarare la loro disponibilità a discutere di un nuovo accordo salariale. Anzi, di un Contratto collettivo di lavoro (Ccl) che, in buona sostanza, 'congela' la busta paga alla rimunerazione oraria attuale, in media 15-16 franchi l'ora lordi. Una opzione di cui si sta dibattendo, pare con qualche resistenza in più, pure alla Cebi Micromotors Swizerland (l'ex Mes-Dea) a Stabio. Eppure sin qui di Ccl non se ne era mai vista neanche l'ombra da quelle parti. Di punto in bianco, invece, chi a gruppi, chi in assemblea, i dipendenti, nella stragrande maggioranza frontalieri, sono stati convocati dalle rispettive dirigenze di fatto messe alle strette dall'arrivo, a dicembre, del salario minimo. Norma da cui sono 'esentate', guarda caso, solo le ditte provviste, appunto, di Ccl. A quel punto il personale si è ritrovato faccia a faccia con i rappresentanti di TiSin, un'organizzazione per il lavoro di cui i più non avevano mai sentito parlare. Un'associazione nata, solo circa un anno e mezzo fa, nel febbraio del 2020, e presieduta da Nando Ceruso, un ex sindacalista. Alcuni lavoratori in una delle riunioni hanno, però, riconosciuto un altro volto di TiSin, quello di Boris Bignasca, capogruppo leghista, che con Sabrina Aldi, vice presidente del 'sindacato', ha affiancato Ceruso in questa iniziativa. E lì il pensiero è corso inevitabilmente alla Lega dei ticinesi, di cui entrambi sono esponenti. Di che restare disorientati per degli operai che non nascondevano di attendere l'applicazione (anche per loro) del salario minimo, ormai a portata di mano.
In realtà, la richiesta da parte dei datori di lavoro di aderire a TiSin - quota pagata dalla ditta - non è stato che il primo passo verso la formalizzazione del nuovo Ccl. Un accordo proiettato per molti su uno schermo durante riunioni e assemblee, domandando così un voto sulla fiducia. A chi si è fatto avanti per poter avere una copia del documento, infatti, nell'immediato è stato risposto di 'no'. Solo alla Cebi sono state consegnate le quindici pagine del contratto, accompagnate dalla richiesta, all'uscita, di firmare una carta (il Ccl seguirà): una firma che non tutti hanno apposto. Dentro gli stabilimenti il clima, insomma, è teso: l'impressione è che aziende e 'sindacalisti' abbiano fretta di chiudere la partita. All'orizzonte, in effetti, una scadenza, come detto, c'è: a dicembre scatta l'obbligo di applicare il salario minimo, oggi legge dello Stato.
Già in vista del voto popolare che in Ticino, come in altri cantoni svizzeri, nel 2015 ha aperto le porte al salario minimo quale strumento di contrasto al dumping salariale e a difesa del valore-lavoro, una decina di aziende aveva manifestato in modo chiaro il suo dissenso; si era arrivati anche ad appellarsi al Tribunale federale. E in alcuni ambienti dell'industria manifatturiera i sentimenti non sono certo cambiati. Già da un po', in effetti, nelle tre fabbriche in cui si è 'svoltato' nelle ultime ore verso un Ccl, si sventolava il salario sociale come uno spauracchio. Ai lavoratori è stato fatto capire a chiare lettere che, applicando la legge, i conti non tornano a fronte di perdite milionarie sulla cifra d'affari. Di più, è stato detto che senza il contratto messo sul tavolo, ci si confronterebbe con licenziamenti e delocalizzazioni, come emerge dalle testimonianze raccolte da 'laRegione'. Anche se c'è chi come la Ligo Electric, una ditta attiva dal 2014 e con un'ottantina di effettivi, dalla primavera scorsa ha già dato la disdetta a 15 persone; o chi come la Cebi, che su suolo ticinese ha circa 500 dipendenti, si è già spostata in Polonia e Romania. L'unica in controtendenza sembra essere la Plastifil, che negli ultimi mesi ha assunto. Sta di fatto che in tutti e tre i casi l'introduzione, proprio adesso, di un Contratto collettivo di lavoro appare come una scappatoia.
«Noi invece non abbiamo avuto via d'uscita - ci racconta un operaio impiegato in una delle tre aziende -. Eravamo tutti un po' spaventati. Ci siamo ritrovati a pronunciarci su un contratto che non abbiamo potuto analizzare da vicino; e farlo sotto l'occhio del padrone. Per ora abbiamo solo l'assicurazione che non cambierà nulla». I timori, però, restano. Tra le maestranze c'è incertezza, frustrazione e confusione per i segnali contrastanti che arrivano dalle dirigenze, lasciano intendere i nostri interlocutori. Anche perché paghe e condizioni di lavoro non sono incoraggianti per i frontalieri o allettanti per i ticinesi, sebbene fra le righe del nuovo contratto si faccia riferimento a una "preferenza indigena".
«Faccio fatica - ci fa notare un altro lavoratore - a immaginare un residente vivere con 16 franchi orari lordi in busta paga». O ancora, ci fanno memoria, ad accettare di non avere la tredicesima o di non vedersi retribuite certe indennità, in passato accordate. In tanti, tengono a farci sapere, sono stanchi di garantire turni per il bene dell'azienda, che non vengono riconosciuti. Al contempo, però, c'è chi aumenta le linee produttive, sempre per reagire alle nuove regole salariali. Poi ci sono le donne lavoratrici, per le quali la parità salariale resta un miraggio. Ci parlano di operaie che lavorano da una vita in ditta e si ritrovano con 13 franchi l'ora lordi; e non possono neanche rifiutarsi di fare gli straordinari («o vengono viste male»), ci raccontano. «Oggi ci ritroviamo fra l'incudine e il martello - ribadisce ancora un altro dipendente -. Cosa succederà? Siamo in balia degli eventi».
E allora di fronte a una situazione che viene definita «insostenibile», tra gli operai si fanno strada gli interrogativi. «Come è possibile - ci chiedono - che si possa chiudere gli occhi davanti a quanto ci sta capitando? Il governo non reagisce a queste manovre?». Ma soprattutto, richiamano i lavoratori sentiti da 'laRegione', «perché la legge non vale per tutti?». E qui la domanda resta in sospeso (per ora).
A sorprendere altri è stata poi la presenza di un 'sindacato' vicino alla Lega: «Ci è stato detto che questa associazione è lontana dalla politica - ci fanno presente -. Resta il fatto che la forza politica a cui appartengono alcuni suoi rappresentanti non è mai stata dalla parte dei frontalieri. Adesso ci difendono?». Qui avremmo voluto saperne di più sulle ragioni che hanno portato TiSin a perfezionare, proprio ora, un Ccl nelle tre industrie del Mendrisiotto, ma non è stato possibile: non siamo riusciti infatti a raggiungere il presidente Nando Ceruso, mentre Sabrina Aldi in merito non ci ha voluto rilasciare dichiarazioni.
Fatto salva la curiosità, questa mossa svela i limiti dell'eccezione inserita nella legge, che esclude dall'applicazione del salario minimo le aziende nelle quali i rapporti di lavoro sono regolati, appunto, da "un contratto collettivo di lavoro di obbligatorietà generale o che fissa un salario minimo obbligatorio". Certo le intenzioni del legislatore erano altre, dando fiducia alle parti sociali e permettendo alle industrie già in possesso di un Ccl di concertare la tempistica entro la quale adeguarsi alla normativa. Come è accaduto, di recente, per il settore dell'abbigliamento, dove vige un Contratto collettivo da settant'anni. Invece, TiSin ha sparigliato le carte, pure ai sindacati storici. «Durante il dibattito in parlamento - spiega a 'laRegione' Ivo Durisch , capogruppo per il Ps in Gran consiglio - abbiamo sempre richiamato l'attenzione che quel passaggio poteva essere un cavallo di Troia, che ritenevamo pericoloso. Ciò che temevamo a quanto pare è accaduto. Fa dispiacere vedere che oggi l'eccezione viene utilizzata per disattendere lo scopo del salario sociale».
Andiamo, però, al sodo e guardiamo da vicino quali sono le condizioni stabilite dal nuovo contratto proposto nelle tre aziende della regione. Innanzitutto, in almeno due casi l'accordo appena sottoscritto avrà validità retroattiva, ovvero a partire dal primo settembre, e resterà in vigore per i prossimi cinque anni, bloccando quindi qualsiasi 'scatto'. Ma ciò che più balza all'occhio sono le tabelle dei salari orari. Sulle dodici mensilità si parte sui 16 franchi l'ora; di fatto solo chi si trova al cosiddetto 'livello 4' supera i 19 franchi fissati dalla legge nella prima fase dell'applicazione della nuova normativa.
I datori di lavoro fanno leva pure su un altro aspetto che già in questi anni ha rappresentato una discriminante per i frontalieri: il tasso di cambio tra franco ed euro, valuta quest'ultima nella quale possono essere retribuiti i dipendenti non residenti. Adesso l'accordo mette nero su bianco una prassi ormai consolidata: la busta paga sarà adeguata in modo automatico all'oscillazione del cambio se il valore di 1 euro sarà al di sotto della soglia minima fissa di un franco e 15. Per contro, quando "il tasso di cambio euro-franco non si trova sotto la soglia minima di tasso di cambio - dunque quando il franco è più forte, ndr -, il salario convenuto viene corrisposto senza alcun adeguamento". Nota finale, quanto a congedi, nel caso della nascita di un figlio, sarà concesso un giorno.
E pensare che alcuni degli operai, messi di fronte al nuovo contratto, ci speravano nell'arrivo del salario minimo. «Tanti lo aspettavano - ci conferma uno di loro -. Sembrava dietro l'angolo, invece...». C'è da credere che i sindacati di riferimento, Ocst e Unia, non resteranno a guardare. «Siamo al corrente di ciò che sta succedendo - conferma a 'laRegione' Nenad Jovanovic, vice segretario regionale dell'Ocst nonché responsabile del settore industria nel Mendrisiotto -. In effetti, abbiamo ricevuto le segnalazioni preoccupate di alcuni lavoratori. Nelle prossime ore, quindi, prenderemo posizione sul da farsi». Unia, dal canto suo, è già sul piede di guerra. «Da subito abbiamo fortemente criticato questa legge - esordisce Vincenzo Cicero, cosegretario responsabile Unia Sottoceneri -. Del resto, ne vedevamo la pericolosità per tutta una serie di situazioni difficili da gestire, a cominciare dai livelli salariali introdotti. Livelli con i quali si risolve la situazione di alcuni lavoratori, ma non si risponde al problema di fondo del dumping salariale, anzi lo si istituzionalizza».
Quanto sta accadendo in Plastifil e Ligo Electric e si potrebbe prospettare alla Cebi, però, mostra anche un altro limite. «Ci sono delle falle, che abbiamo segnalato. In questi casi stanno emergendo proprio le criticità della legge, così come le attitudini di una fetta di imprenditoria e di politica ticinesi». Cicero non usa mezzi termini: «Siamo di fronte a imprenditori senza scrupoli, che si appoggiano ad associazioni padronali e sindacati fantasma per eludere la normativa e continuare a pagare i lavoratori con salari da schiavi. Qui non solo si aggira la volontà del legislatore ma anche quella popolare».