All’Atelier Weiss a Tremona da domenica l’incontro di due artisti (e amici): Tazio Marti e Trudi Gartmann
Salendo da Mendrisio verso l’atelier di Irene Weiss, a Tremona, una luce particolare, a metà tra estate e l’imminente autunno entra nel paesaggio, in relazione con chi percepisce la sua multiforme natura. La stradina del borgo è un modo per sentire voci e figure della nostra vita, nel silenzio. Tutto questo esprime, come ha scritto Eleonora Fiorani, “l’amicizia rispettosa tra l’uomo e le piante, i mondi dei tubercoli…”. Mondi piccoli e preziosi. Irene Weiss, in ventidue anni di lavoro, ha costruito un ambiente che restituisce la sua idea di rapporto con gli artisti, vicina a loro, solidale. Tazio Marti, ‘Percorsi’, e Trudi Gartmann, ‘Le Conchiglie di Holbox’, questa domenica, dalle 16, danno vita alla mostra numero settanta. Settanta è anche l’età degli artisti. Partiamo da qui.
Cosa pensi di questo cammino? «Me ne sono accorta per caso. Riflettendo su quella che s’inaugura domenica mi sono chiesta: quante ne ho fatte? Ecco, settanta, quasi un destino pensando a Tazio e Trudi, adesso qui». La cadenza? «Per diverso tempo, quattro all’anno, poi ho deciso di ridurle a due. Ho un po’ più di respiro». Cosa conservi dalla prima a oggi? Qualcosa è cambiato? «Degli artisti venuti ne sono rimasti una decina. L’atelier è diventato più bello, io più sicura. Gli anni Novanta sono stati molto positivi, stimolanti: credo che per l’arte si sia perso un po’ di interesse nelle generazioni venute dopo».
Solitamente proponi due artisti, anche con notevoli differenze. «Sì. Mi piace. La cosa che ritengo importante, al di là dei generi, dello stile, è la qualità del loro percorso. Possono piacere o meno, ma tutti hanno un valore riconosciuto». L’atelier, porta con sé una storia artistica, familiare, importante. Penso a Max Weiss, tuo padre. A tua sorella, Petra. «Devo ringraziare mio padre perché mi ha permesso di aprire questa attività. Fuori vedi le sue opere, sono tracce visibili che danno il senso di un’appartenenza forte».
Con gli artisti, mi sembra che tu cerchi un dialogo. Una comunanza. «Devono essere, soprattutto, simpatici. Parlo di empatia. Un modo per creare una relazione e in alcuni casi un’amicizia. Ognuna a suo modo». A Tremona, l’atelier è immerso nel verde. «Credo sia il suo pregio; pur essendo un po’ fuori è un luogo ben visitato. Le persone vengono per vedere la mostra, approfondire. Oltre a mio padre, nel giardino sono presenti sculture di Pascal Murer, Steff Lüthi, a cui sono molto legata». La mostra riunisce due artisti che senti particolarmente vicini. «Sono contenta che ci siano. Con Tazio siamo cresciuti assieme, i nostri genitori erano amici. Ci siamo persi e rivisti: diverse volte ha esposto in atelier. Ci sono i suoi trompel’oeil, le pitture su vetro».
E Trudi? «Vive in Messico ed è una grande amica. Ci conosciamo da quando avevamo diciassette anni, abbiamo condiviso molti momenti. A San Cristobal, nel Chiapas, ha realizzato una scuola Steiner e aperto degli atelier per gli Indios». Le conchiglie? «Le raccoglie dal 2004. Forma dei quadri e devi pensare che si è abbassata per ogni conchiglia. Un lavoro certosino. Due anni fa sono stata nell’isola di Holbox e le ho detto che desideravo esponesse». Trudi Gartmann nasce a Thusis. Ha sviluppato esperienze in campo artistico, filmico, teatrale. «Sono stata la prima ad andare in Messico – prosegue Irene – a metà anni Settanta e lei, seguendomi, è rimasta. Nel 2004 inizia a costruire la casa di Holbox. Là, nasce la ricerca e la sua forma espressiva».
Ariel Zuniga, regista, marito di Trudi, presenta la mostra insieme a Mauro Paolocci, libraio di Mendrisio appassionato d’arte, sue le edizioni ‘Fuoridalcoro’ a tiratura limitata. Zuniga, scrive: “Com’è possibile che queste conchiglie siano così vive dopo essere state gettate dal mare?”. E ancora: “Nelle sue ultime opere, più di una riscopre le Alpi tra le conchiglie, come un effetto specchio…”. Prima di lasciare l’atelier, passo dalle ballerine di Trudi Gartmann, sospese in giardino, per poi soffermarmi sul mondo vegetale di Tazio Marti, un mondo che riporta all’idea di un naturale perduto, eppure vivissimo se sappiamo osservarlo: ecco, ‘Piuma, Foglia, Vite a Farfalla’. Nelle altre opere, colpisce la profondità delle immagini, il geometrico linguaggio di un alfabeto fatto di segni che scuote per misura, bellezza, desiderio di un altrove.