Marilena Bubba, rientrata da qualche mese a Taverne, ci ha raccontato la sua avventura di cooperante per la Fundación Estrellas en la Calle in Bolivia
Doveva partire solo per un anno, ma sono diventati tre: l’educatrice Marilena Bubba è rientrata da poco a Taverne dopo un interscambio a sostegno delle persone in situazione di strada per la Fundación Estrellas en la Calle (Fec) attiva dal 2005 a Cochabamba, in Bolivia. In particolare, Bubba si è occupata di seguire ragazzi con un trascorso di sofferenza e violenza in condizioni di tossicodipendenza da cocaina, alcol e altre sostanze. Certo è che non è tornata con le pive nel sacco, al contrario, con una valigia piena di ricordi ed emozioni e... due cagnolini.
Bubba, laureatasi come educatrice alla Supsi di Manno e interessata al mondo della cooperazione, si è affidata all’associazione Comundo che l’ha aiutata a scegliere l’esperienza di interscambio professionale più adatta alle sue esigenze. «Dopo un’esperienza simile in Africa, in Burkina Faso, il mio desiderio era quello di conoscere l’America Latina. Per la mia professione era aperto un concorso e così sono venuta a conoscenza della Fundación Estrellas en la Calle. È stata più la Bolivia a scegliere me che non io a scegliere la Bolivia». A marzo 2019 inizia la sua avventura. Intenzionata a rimanere un solo anno, Bubba si è infine appassionata al lavoro al punto tale che non se l’è sentita di concludere il percorso come prestabilito. Il fascino della cooperazione ha fatto breccia nel suo cuore, e in Bolivia è rimasta per altri due anni, fino allo scorso aprile. Anni caratterizzati da tensioni politiche, dovute alle elezioni presidenziali, e da condizioni sanitarie inaspritesi dallo scoppio del coronavirus. «In Bolivia è successo l’impensabile, e ho vissuto di tutto: gioie, dolori, arrabbiature epocali e momenti di meraviglia, preoccupazione, sofferenza, ma anche amore e solidarietà. Ho potuto vivere la Bolivia con le sue mille sfaccettature. Sono stati tre anni così pieni di emozioni e situazioni che mi sembra di averne vissuti 10».
L’educatrice ticinese, ormai ben adattatasi alla realtà sudamericana, ha avuto modo di seguire due progetti della Fec: «Uno dedicato a ragazzi in situazioni di strada, mentre l’altro era un progetto di prevenzione, ovvero un centro diurno per bambini adolescenti o lavoratori a rischio». Ripercorrendo insieme a noi la sua esperienza a Cochabamba, Bubba ci ha raccontato una sua giornata tipo: «In mattinata ci si incontrava con gli altri educatori in ufficio per decidere il da farsi, e in particolar modo si sceglieva quale gruppo andare a visitare. Ci sono vari gruppi di ragazzi che vivono in diversi punti della città: sotto i ponti, su una collinetta, in piazza. Insieme valutavamo quali di questi non erano sotto l’influsso di stupefacenti, perché per poter svolgere le attività e poter capire meglio le loro condizioni dovevano essere lucidi. Tendenzialmente, la mattina era il momento più idoneo. Dopodiché salutavamo il gruppo e chiedevamo ai ragazzi se fossero disposti a partecipare alle attività, senza obblighi né costrizioni. Chi di loro accettava veniva insieme a noi in un campo di calcio, oppure nei boschi o al fiume. In un momento iniziale ci si dedicava all’aspetto cognitivo e motorio. Eravamo muniti di uno zaino pieno di disegni, giochi, palloni, carte, e in base alla situazione proponevamo un’attività piuttosto che un’altra a scopo educativo. Il disegno, per esempio, era volto ad attivare la motricità fine, come prendere la matita per vedere il loro livello di manualità e valutare le conseguenze del consumo. Sono ragazzi di strada, policonsumatori: consumano alcol puro al 90% e si drogano con la pasta base di cocaina (quindi il primo taglio della cocaina che è uno dei tagli peggiori).
Inoltre – racconta Bubba –, ogni giorno un educatore incaricato sceglieva un tema per il workshop: prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, informazioni sui metodi anticoncezionali, sensibilizzazione sulla tubercolosi, prevenzione e presa a carico dell’abuso di sostanze, promozione dell’autostima e la costruzione identitaria, sostegno nella richiesta di documenti ufficiali, animazioni di incontri per incoraggiare il cambiamento o sostenere nuovi progetti di vita volti al reinserimento sociale. A livello statale non c’è nessun tipo di aiuto, nessuno se ne preoccupa perché c’è un grande stigma nei confronti di questi ragazzi».
Ma quali sono le raccomandazioni per chi è interessato a vivere una simile esperienza? «È importante fare una valutazione personale e capire che non è tutto rose e fiori. Occorre uscire dagli schemi, una bella flessibilità, e buone capacità di autoriflessione. Ma anche viverla appieno senza troppo stress. Inoltre si devono valutare anche le situazioni politiche e sanitarie in corso. Per questo ritengo fondamentale parlare con chi quest’esperienza l’ha già fatta. Ma se la si vive, ti cambia la vita. Lo shock culturale è sempre molto forte anche se si va preparati. Secondo me, gli alti e bassi succedono ovunque nella vita, ma in un contesto nuovo come questo, i bassi sono molto più bassi e gli alti sono molti più alti, ogni emozione la vivi in maniera più forte».