Bilancio dei primi otto anni di centro Macondo a Chiasso, due dei quali in pandemia. E la storia di Anna, che grazie al progetto ha trovato la sua strada.
«L’onda pandemica è lunga e dal mio osservatorio la scia che genera non è che un assaggio in proiezione futura». Non nasconde la preoccupazione Yvan Gentizon: per i ragazzi che partecipano al progetto di reinserimento socioprofessionale che coordina dal 2013, la pandemia ha avuto, sta avendo e rischia di avere ripercussioni importanti. E le segnalazioni a Macondo - dalla cui sede in via Camponovo 4 a Chiasso sono transitati circa 150 giovani di cui più della metà hanno trovato soluzioni lavorative e/o formative - sono in crescita.
Di questi otto anni, due dei quali in pandemia, che bilancio possiamo tracciare?
Nonostante tutto soddisfacente. Da un punto di vista operativo negli anni ci siamo impegnati nello sviluppo minuzioso di un modello d’intervento, basato sul lavoro sinergico tra educatori, psicologa e maestri socioprofessionali (una dozzina di persone in totale, ndr), mentre i dati incoraggianti ci dicono che il 75% dei partecipanti che intraprendono il percorso lo portano a termine con successo.
Chi sono i partecipanti al progetto?
Giovani adulti (tra 18 e 25 anni) che per ragioni diverse non hanno concluso un ciclo scolastico o d’apprendistato. Generalmente hanno vissuto periodi di stallo più o meno lunghi, durante i quali si sono generate situazioni difficili da gestire. Non di rado alcuni ragazzi incappano loro malgrado in circostanze personali complesse da sostenere, a ciò si aggiungono dubbi circa scelte professionali e personali azzardate pregresse, altri ancora faticano a rimanere al passo con i tempi che il mondo del lavoro e la società ci impone, altri ‘semplicemente’ confusi non hanno idea di ciò che vorrebbero fare del loro futuro. È quindi utile fermarsi un attimo, riflettere, condividere con i partecipanti la loro situazione e riorientare il loro progetto di vita e professionale. Proprio così di vita, perché è chiaro che la formazione come il lavoro in termini di riconoscimento identitario hanno un certo peso e per un giovane non riuscire a concretizzarli può far vacillare le proprie certezze ed equilibri emotivi.
Una presa a carico quanto dura e cosa si fa in questo periodo?
Formalmente quindici mesi e durante questo periodo accogliamo una quindicina di partecipanti: un tetto massimo dovuto alle risorse finanziarie e umane a disposizione. Sostanzialmente dopo la segnalazione da parte dell’Ufficio del sostegno sociale e dell’inserimento (USSI) si sottoscrive un accordo di collaborazione tra partecipante, noi e Cantone. La stessa procedura avviene per le segnalazioni che giungono dall’Assicurazione invalidità, con i quali abbiamo intrapreso un partenariato da qualche anno a questa parte. Svolgiamo un primo colloquio di conoscenza esponiamo i contenuti del progetto e se vi è adesione concordiamo la data d’inizio del progetto. I tre mesi iniziali consistono e prevedono un ambientamento, un accompagnamento mirato e una conoscenza approfondita a livello di personalità, coinvolgendo il partecipante alle attività previste quotidianamente, rilevando potenzialità, competenze lavorative e attitudinali. Questo periodo verte soprattutto sulla conoscenza reciproca, durante il quale creare un rapporto di fiducia è di fondamentale importanza. Il seguito prevede un periodo di orientamento e accompagnamento verso l’ambito formativo da percorrere e la mappatura rispetto all’organizzazione di stage lavorativi. Molti dei partecipanti arrivano sfiduciati, talvolta perché prima dell’ingresso a Macondo, hanno già maturato diverse misure o progetti che purtroppo non hanno sortito gli effetti desiderati.
Quando si considera riuscito un progetto?
Nella maggior parte dei casi, quando qualcuno pone la firma per un apprendistato e lo inizia. Noi comunque garantiamo un seguito ai ragazzi anche dopo questo momento, un coaching, tramite incontri di supporto. Ci è capitato che situazioni piuttosto complesse impedivano un percorso classico d’inserimento lavorativo e andava data priorità invece a un accompagnamento individuale di altro tipo, consideriamo comunque indice di successo, proprio perché nasce una certa consapevolezza nel poter dare priorità a ciò che in quel momento inficia una serie di opportunità lavorative.
E se qualcuno abbandona durante il percorso?
Succede che taluni possano avere aspettative che poi nella realtà non rilevano, altri invece si accorgono a percorso intrapreso di non avere l’esigenza di un aiuto di questo tipo, ci si ferma e riorienta verso altri partner.
La pandemia come si è ripercossa sul progetto?
Non è stato semplice. Gli incontri avvenivano tutti in presenza e le attività che proponiamo ai ragazzi sono varie, spaziano dal giardinaggio alla cucina, dalla sartoria al multimediale. Abbiamo dovuto privilegiare la teoria rispetto alla pratica e attraverso una bacheca digitale abbiamo adattato il lavoro in presenza verso l’online. L’effetto pandemia stava demotivando alcuni ragazzi, perché faticavano a vedere i frutti del proprio impegno mentre le prospettive svanivano, riagganciarli non è stato evidente. Priorità dunque mantenere agganciati i ragazzi. Inoltre, sono diminuiti anche i datori di lavoro: dopo questi due anni di pandemia, trovare disponibilità ed energie da dedicare a una popolazione più fragile non è scontato. Questa è una parte fondamentale del progetto e per la quale oggi sono moderatamente preoccupato, ma voglio essere positivo. Le attività sono riprese in presenza e qualche contatto sta ricomparendo, ma servirà ancora del tempo.
‘Ero sfiduciata, ora ho capito qual è la mia strada’
A riprova delle difficoltà delle quali parla Gentizon, ma anche e soprattutto del valore del progetto, c’è la testimonianza di Anna. La 24enne – vero nome noto alla redazione – ci racconta la sua storia: «Nel 2019 ho interrotto, per motivi personali, una formazione da impiegata di economia domestica e mi sono ritrovata senza lavoro. Tramite l’Ussi mi è stato proposto questo progetto». A Macondo Anna non si è trovata subito bene: «Quando sono arrivata qui, a causa di esperienze negative pregresse, non ero per niente convinta dell’aiuto che avrebbero potuto darmi. Inoltre, non avevo le idee in chiaro su cosa fare». Oltre alla formazione per impiegata di economia domestica, la ragazza ne aveva iniziata precedentemente anche una per cameriera, pure senza portarla a termine. «Ero sfiduciata, ma ho deciso di provarci. E posso dire di aver fatto bene».
«È stata brava! Il suo è stato un percorso complesso – ricorda Gentizon –, ma piuttosto ‘rapido’: ha concluso il programma prima dei dodici mesi canonici. È arrivata qui a ottobre 2020 e trascorsi i primi tre mesi ha svolto una decina di stages come assistente di studio veterinario, scoprendo che le sarebbe piaciuto fare questo mestiere e ricevendo riscontri positivi da parte di tutti i datori di lavoro. Non abbiamo però ancora trovato una soluzione contrattuale». «Alle medie avevo già pensato alla professione di veterinario. Non ero però molto portata per lo studio e quindi è un pensiero che ho lasciato perdere – spiega Anna –. Qui ci ho messo un po’ a fidarmi, a credere che sarebbe potuto cambiar qualcosa, ma pian piano ho cominciato ad aprirmi. Sono arrivata con l’idea di trovare un lavoro e basta, invece ho capito che non era solo quello. Il grosso lavoro è affrontare e risolvere le problematiche». E se l’obiettivo resta trovare un posto di apprendistato per iniziare la scuola a settembre 2022, la 24enne è soddisfatta: ha capito qual è la sua strada e ha risolto anche alcune situazioni personali che la affliggevano da tempo.