Dopo la ‘riscoperta’ di un secondo bastione, intervista a Marino Viganò, che attribuì quello principale al da Vinci: ‘Chiari legami con Milano’
Marino Viganò verrà probabilmente ricordato in primo luogo per la clamorosa attribuzione del rivellino del castello di Locarno a Leonardo da Vinci. Quella specifica ricerca era stata sollecitata dalla proprietà (privata) del fortilizio nel 2002 e dall’Ufficio dei beni culturali in relazione a una domanda di riattazione degli spazi. «Aveva comportato ampie indagini e iniziative per analizzare e tentare di valorizzare l’edificio», ricorda oggi Viganò.
Al di là di questo, l’attività da esperto di architettura militare va avanti da quasi 50 anni nello studio di vicende di strutture difensive, talvolta anche per accompagnare iniziative di riuso. Al momento, dal 2022, Viganò affianca lo stesso Ufficio dei beni culturali nel progetto “Fortezza Bellinzona” nel reperimento e la trascrizione di documenti sulla piazzaforte dal VI al XV secolo. È inoltre direttore della Fondazione Trivulzio a Milano e collabora, nel 500° della Carta delle Leghe Grigie (1524-2024), a studi e attività in valle Mesolcina, specialmente al castello di Mesocco, «su cui – ricorda Viganò – il casato Trivulzio ha dominato, col titolo comitale, dal 1480 al 1549».
Marino Viganò, la “notizia del giorno” è la “riscoperta”, al castello di Locarno, di un secondo rivellino da parte dell’architetto Chiara Lumia, che si è per così dire esposta pubblicamente dopo aver effettuato importanti approfondimenti della ricerca storico-tecnica che le era stata commissionata dalla Città di Locarno. Cosa pensa di questa nuova interpretazione di una rovina già rilevata negli anni 20? Ma, soprattutto, crede la si possa mettere in relazione con il primo, più grande e ormai celebre rivellino leonardesco?
Mi faccia premettere che quello di Chiara Lumia è un contributo fondamentale alla storia del fortilizio e delle sue fortificazioni dell’età francese, essendo pure tale puntone riferibile, per la struttura, al quindicennio 1499-1513. Più precisamente, come l’altro, al 1507. Replica, de facto, lo schema leonardiano dei rivellini del 1499 al castello di Milano: pentagonale al portale, triangolare all’ingresso del soccorso. Avendoli divulgati in un saggio a quattro mani con Gianfranco Pertot – autore dei restauri dell’Ospedale spagnolo del castello – sin dal 2006 ci son parsi preludere al reimpiego, nell’analogo progetto locarnese, dello stesso ingegnere: Leonardo. Progetto richiesto sia dalla distruzione d’una torre – ora inglobata nel bastione – durante l’assedio elvetico del 1503, sia dalla posizione avanzata sulla linea di frontiera.
C’è quindi un chiaro legame fra i rivellini di Milano e quelli di Locarno?
Certo. Milano mancava di esperti e ne aveva richiesti all’alleata Firenze. Fra essi Benedetto Ferrini, autore della rocca di Sasso Corbaro a Bellinzona (ove muore di peste nel 1479) e, appunto, il concittadino da Vinci, già per consulenza su Casalmaggiore durante la “Guerra del sale” contro Venezia nel 1482 e all’avvio dello stato di guerra tra Impero germanico e Francia per il ducato nel 1506.
Ci parli del rivellino principale e del complesso castellano locarnese.
Il bastione è comprovato del 1507, ultimo intervento significativo prima del parziale abbattimento delle difese nel 1531, con destinazione delle strutture a sede dei landfogti. Per quanto riguarda il complesso, oggi possiamo valutare che le parti superstiti corrispondono a meno di due quinti dell’estensione di inizio XVI secolo, allorché su almeno tre, se non quattro quote di livello differenti, svettavano il settore più propriamente militare, con l’ingresso principale alto sul roccione di sedime, il palazzo signorile – con un secondo ordine di mura e torri – e l’avancorpo del rivellino. V’erano poi il porto munito di torrini, immerso perlopiù nelle acque del lago, nonché aderenze e pertinenze tuttora poco note. Tra esse una vasta rete di gallerie. Non per nulla, stando a cronisti milanesi e testimoni locali, al tempo, e almeno dal 1499, il complesso – dal 1503 ubicato inoltre sulla nuova frontiera tra ducato di Milano e Confederazione svizzera – era considerato il maggiore dell’area. E guardando alla vicina Bellinzona è tutto dire. Faccio presente che Locarno ospitava la seconda guarnigione dello stato, sia in tempo di pace, sia in tempo di guerra.
Il suo importante contributo personale alla storia del castello di Locarno è in anni di studi dedicati. Con quali modalità era giunto all’attribuzione leonardiana del rivellino?
Già a inizio studi il rivellino era apparso decisamente avveniristico se attribuito, com’era ancora, all’età dei Rusca. Poi, avanzando nelle indagini, erano emersi elementi interessanti. Il baluardo risultava aggiunto al castello su ordine di Charles II d’Amboise, luogotenente per Luigi XII, re di Francia e duca di Milano, con confisca e abbattimento di abitazioni per creare il campo di tiro delle artiglierie, e fabbricato dalle genti del Luinese poiché i locarnesi erano esentati per privilegio dal lavorare nei cantieri di fortificazione del borgo. Come documentato da tante fonti primarie, infatti, una catena di altri baluardi, chiamati appunto rivellini, veniva fatta erigere dal d’Amboise tra il giugno 1507 e il luglio 1508 in previsione di un’invasione del Milanese a opera di Massimiliano I d’Asburgo, “re dei Romani”. Lavori sono testimoniati per le difese di Domodossola, Locarno, Lugano, Sonvico, Chiavenna, Tirano, Como, Lecco, Arona, Vogogna, Novara, Trezzo d’Adda, Lodi, Pavia, Parma e Milano. E dappertutto con le stesse identiche modalità: confisca e abbattimento di case, promesse inevase di rimborsi, lavoro forzoso.
Giorgio Floro, funzionario dell’officio del generale delle Finanze incaricato di pagare i lavori, elenca le fortezze cui ha provveduto nella fase più intensiva (giugno-novembre 1507), ovvero Chiavenna, Como, Locarno, Domodossola, Tirano, Piattamala, Lugano, Novara, prossime ai laghi Verbano e Lario, munite di mura, fossati, baluardi, terrapieni e torrioni, a seconda della natura dei siti.
E qui “riconosciamo” dunque il rivellino di Locarno.
Era evidente trattarsi di un anello di quella catena: medesimo committente, presenza nell’elenco del pagatore dei cantieri e identico nome degli altri coevi. Unica, fondamentale differenza, è il genere di edificio. Non l’usuale baluardo a ferro di cavallo detto “della transizione” – modello di norma all’epoca – ma un bastione tecnicamente avanzato, “martiniano”, dal nome dell’ingegnere Francesco di Giorgio Martini, perfezionatore dei prototipi. La tipologia, testata nell’Italia centrale e meridionale, sarebbe giunta, peraltro, in quella settentrionale solo dal 1527. Per questo, precedente di vent’anni, occorreva identificare un progettista dotato di quelle cognizioni e attivo allora a Milano.
Quindi?
Fra i tecnici milanesi non v’era nessun candidato che non avesse realizzato i soliti baluardi “della transizione”. Invece, come noto dagli studi, un ingegnere con quelle competenze, già attivo per gli Sforza dal 1482 al 1499, era appunto richiamato d’imperio da Firenze a Milano in quelle circostanze e proprio dal d’Amboise già all’aprirsi della crisi con l’Impero, nel giugno 1506, con una licenza in principio di 3 mesi, ma veniva poi trattenuto sino al settembre 1507. Si trattava di Leonardo da Vinci.
Cosa andrebbe fatto, secondo lei, per rendere maggiormente giustizia all’enorme patrimonio presente ma purtroppo nascosto e non fruibile poiché non debitamente valorizzato?
Interventi complessivi, sia di carattere storiografico – raccolta e copiatura, come a Bellinzona, dell’intera massa di fonti per conoscere e redigere una storia affidabile dell’insieme e delle singole parti dell’edificio –, sia di carattere strutturale, recuperando al meglio quanto rimane del complesso.
Che ruolo potrebbe avere l’Ufficio beni culturali?
Un ruolo centrale nel coordinare, promuovere e valorizzare i restauri. Costituendo inoltre, posso ipotizzare, una “rete delle fortezze” che potrebbe comprendere anche Bellinzona, Serravalle e Morcote in Ticino, nonché Mesocco in Mesolcina: tutti echi visibili del dominio milanese. Senza trascurare, magari, i resti dei castelli di Ascona, e anche altri esemplari rimasti più in ombra, quali il “castello” Marcacci a Brione Verzasca e la Ca’ di ferro a Minusio-Rivapiana.
Tornando all’oggi, e al prossimo futuro già pianificato da un iter che procede spedito, le sembra possibile che tutto il “sommerso”, compresi rivellini e gallerie, non venga considerato dall’attuale, multimilionario progetto di restauro?
Se fosse così lo reputerei poco saggio, specie dal profilo prettamente economico. Investirvi porterebbe ricadute già sperimentate altrove: dico soprattutto dal profilo turistico, con tutti gli effetti positivi che ne possono derivare. Bellinzona, ad esempio, questi vantaggi li ha chiaramente preventivati.