Condannato per assassinio il 56enne che esplose diversi colpi contro la moglie uccidendola
Sembrava poter scricchiolare, l’atto d’accusa-bis preparato dall’ex procuratore pubblico Antonio Perugini. Ma ha tenuto abbastanza da consentire alla Corte delle Assise criminali di Locarno di infliggere una pena di 18 anni per assassinio all’uomo che il 23 giugno del 2017, ad Ascona, uccise con 7 colpi di pistola la moglie. La Corte, pur rilevando lacune nella conduzione dell’inchiesta – sempre coordinata dall’ex pp – e sottolineando le criticità dell’atto d’accusa, ha potuto sostenere il reato più grave del codice penale basandosi su quelle che sono state «modalità e movente particolarmente perversi». Il giudice Mauro Ermani ha parlato di «colpa gravissima dal punto di vista oggettivo e da quello soggettivo», di «egoismo gretto e primitivo», nonché di «una scala di valori inaccettabile per un Paese come la Svizzera», dove l’imputato, di origine macedone, ha vissuto per oltre 30 anni, «non riuscendo però mai ad integrarsi completamente».
L’uomo, dopo la decisione della consorte di lasciarlo, pazzo di gelosia e possessivo fino all’inverosimile, ha compiuto «atti invasivi, minacciosi e opprimenti», fissando il 13 giugno 2017 un ultimatum («se entro 10 giorni non torni da me ti uccido»), poi rispettato esattamente alla scadenza, il 23 giugno, con 7 colpi di pistola, di cui 5 esplosi da tergo e 4 letali.
Ermani ha anche rilevato le responsabilità della “rete” di protezione, ovverosia autorità mediche, tutorie e di polizia, invitate in futuro a «riflettere sulla gestione della violenza domestica con un miglior passaggio di informazioni». Nel caso specifico non aveva fatto sufficientemente breccia – in quella che il procuratore pubblico Moreno Capella aveva definito «la comfort zone della routine» – una situazione sempre più difficile, fatta di maltrattamenti (fisici e psicologici) e minacce. Infine, una nota il giudice l’ha riservata alla mancata presa di coscienza dell’imputato: «Non c’è pentimento – ha detto – senza un’assunzione completa di responsabilità». Il che avrebbe significato spiegare dove si era procurato la pistola e cosa esattamente era successo quel maledetto venerdì sul luogo del crimine.
In mattinata il difensore dell’imputato, avvocato Niccolò Giovanettina, si era battuto per una pena massima di 14 anni ma non per assassinio, bensì per omicidio. Giovanettina ha considerato che l’inchiesta era stata lacunosa perché non si sarebbe concentrata in maniera sufficiente sui motivi del gesto e soprattutto sugli antefatti: la morte della prima moglie dell’imputato, la genesi “arcaica” del secondo matrimonio – quello con la vittima –, lo sviluppo di questo legame di coppia e infine, nel momento dell’abbandono da parte della donna, i sentimenti di perdita considerati inaccettabili dall’imputato non soltanto in relazione al legame affettivo in sè, ma anche alla precedente situazione di vedovanza.
Soprattutto, Giovanettina aveva messo l’accento sul pericolo di violazione del principio accusatorio con un atto d’accusa troppo fragile per sostenere una condanna per assassinio. Va ricordato che la prima versione era stata rispedita al mittente dal Tribunale penale, e anche la seconda – “aggiustata” con l’aggiunta di un paragrafo – si è rivelata “a rischio”, per rapporto all’accusa principale di assassinio. Ma anche grazie al buon lavoro svolto in aula del pp Moreno Capella, le cose sono andate come (quasi) tutti auspicavano.