Sulla riforma della magistratura è ora il Gran Consiglio a condurre le danze. Il recente voto parlamentare è di fatto un segnale di sfiducia a Gobbi
È passata poco più di una settimana dalla vivida luce verde del Gran Consiglio al pacchetto di misure elaborato dalla propria commissione ‘Giustizia e diritti’ per riformare la magistratura ticinese. Di quel pomeriggio a Palazzo delle Orsoline riecheggiano le parole e indelebili sono le immagini. C’è poco da fare: dal dibattito fiume e dal chiarissimo voto di mercoledì 16 il capo del Dipartimento istituzioni Norman Gobbi e la direzione della sua Divisione giustizia sono usciti politicamente a pezzi.
Visto il fallimento del progetto ‘Giustizia 2018’ per rendere, citando il consigliere di Stato leghista, più “efficace ed efficiente” il terzo potere dello Stato, visto il continuo girare a vuoto della Divisione e dunque del Dipartimento, segno della mancanza sul tema giustizia di una visione d’insieme e coerente, il parlamento ha indicato un percorso chiaro. Fissando paletti e soprattutto tempi. Certo, quel pomeriggio a Palazzo delle Orsoline si sono invocati collaborazione e dialogo fra esecutivo e legislativo nel portare avanti i provvedimenti varati. Auspici che paiono però di circostanza. In realtà a dettare l’agenda è adesso il Gran Consiglio: la strada che ha indicato è una strada obbligata per il governo, se si vogliono evitare estenuanti discussioni e conseguenti ulteriori ritardi nel migliorare il funzionamento della magistratura. Collaborazione e dialogo sì, ma alle condizioni poste dal legislativo. Gobbi sembra essersene reso conto, benché abbia fatto buon viso (a tratti forzato) a cattivo gioco. D’altronde il deputato del Centro Fiorenzo Dadò appare piuttosto determinato nel tradurre in norme e risorse la riforma prospettata, con il recente avallo del plenum parlamentare, dalla commissione ‘Giustizia e diritti’, prima di terminarne, il prossimo maggio, la presidenza.
Insomma, quanto andato in scena poco più di una settimana fa in Gran Consiglio rappresenta un segnale di sfiducia nei confronti di Gobbi e della Divisione giustizia. Il secondo, dopo quello lanciato dai cittadini il 9 giugno con la bocciatura, decretata da quasi il sessanta per cento di no, dell’acquisto a Lugano del costosissimo, in un momento peraltro in cui il Consiglio di Stato predica risparmi e decide tagli, stabile Efg, il lussuoso edificio che avrebbe dovuto ospitare gran parte del terzo potere di questo cantone. Due atti di sfiducia nel giro di pochi mesi su un dossier importante e sensibile: la giustizia.
È allora legittimo interrogarsi sulla forza contrattuale in ottica politica di un ministro di fatto dimezzato. A questo punto quali probabilità avrà Gobbi di incassare l’adesione del Gran Consiglio per esempio al piano d’azione concepito dal suo Dipartimento per contrastare la criminalità economica in Ticino? Un’azione di contrasto che coinvolgerebbe non solo magistratura e polizia, ma pure uffici amministrativi (Fallimenti e Registro di commercio) e Comuni. Intento lodevole, senz’altro condivisibile. Il piano tuttavia prevede anche potenziamenti in termini di risorse umane. Se non si dovessero trovare i profili giusti all’interno dell’Amministrazione cantonale, bisognerebbe fare nuove assunzioni. Ebbene, come giustificherebbe questo passo Gobbi, il cui partito si batte per la riduzione dei dipendenti pubblici. Ragionerebbe da consigliere di Stato o da coordinatore della Lega?
Per i vertici del Dipartimento istituzioni s’impone una profonda riflessione, se desiderano recuperare credibilità e legittimazione. In ballo ci sono altri grossi dossier cari a Gobbi: la riforma delle autorità di protezione, la revisione totale della Legge sulla polizia…