Netanyahu ha colpito sia Hamas che Hezbollah. Per ora a Teheran prevale la linea della prudenza. Ma per quanto ancora?
“Quando l’Iran sarà finalmente libero, e quel momento arriverà molto prima di quanto si pensi, tutto sarà diverso”. È il passaggio più importante, e preoccupante, del messaggio letto ieri da Benjamin Netanyahu in un videomessaggio rivolto al popolo di quel Paese. Parole che suonano come un preavviso, un viatico, una esplicita volontà del premier israeliano di ricorso alla forza per abbattere la teocrazia degli ayatollah al potere da 45 anni. Minaccia di quella “guerra preventiva” a cui Bibi, come lo chiamano in patria, pensa da tempo.
Frenato, fino a ieri, dagli alleati americani. Oggi inascoltati per la debolezza di Biden e il possibile ritorno dell’amico Trump alla Casa Bianca. Galvanizzato, Netanyahu, dai recentissimi successi militari contro Hezbollah, avanguardia armata di Teheran, considerato la maggiore insidia per lo Stato ebraico. Il premier più longevo della storia politica israeliana, euforico e tornato in testa nei sondaggi, sembrerebbe sempre più deciso all’ultimo atto, convinto, contrariamente ai timori internazionali, che un’offensiva militare diretta contro i vertici della Repubblica islamica non avrebbe pericolose conseguenze di ulteriore destabilizzazione regionale. Ritiene che il mondo sunnita faccia silenziosamente il tifo per lui nel contrasto alla centrale sciita.
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Una donna iraniana con la bandiera palestinese passa sotto al volto di Khomeini
Euforico, Netanyahu. In effetti, dell’“anello di fuoco” acceso dall’Iran attorno all’“entità sionista”, nell’illusione di tenerla sotto scacco, o quantomeno mitigarne i propositi militarmente più insidiosi per la Repubblica islamica, Hamas ed Hezbollah erano le componenti più minacciose per Israele. Erano; oggi non lo sono più.
Dopo il cosiddetto pogrom del 7 ottobre ’23, lo Stato ebraico ha messo in campo tutta la sua forza militare, tecnologica e di intelligence (rivincita e riabilitazione del tragico flop di un anno fa nel Negev) per spezzare i due segmenti di maggior peso dell’“asse della resistenza” pro-sciita. Un’escalation israeliana impietosa e spropositata contro le popolazioni arabe di Gaza e del Libano, ma efficace nel decapitare i vertici dei ‘partiti di Allah’, Hamas ed Hezbollah. L’invasione israeliana del Libano meridionale è l’istantanea dell’ultima ora, con sviluppi non prevedibili, con possibili ribaltoni e relativi boomerang.
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Murale a Tel Aviv con Biden versione supereroe per difendere Israele
Finora a Teheran era prevalsa la linea della prudenza. Il vertice religioso sa di non poter reggere uno scontro diretto e totale con lo Stato ebraico. Non ne ha la forza. L’esercito, già pilastro del regime dello scià, è stato derubricato; il potere militare è passato alle “Guardie della Rivoluzione”, pasdaran capaci di sostenere efficacemente i “proxies” amici (nelle guerre civili siriana, yemenita, irachena) ma non di organizzare moderne forze armate. Di più: l’Iran è massicciamente infiltrato da spie al servizio del nemico. Inoltre: la “dittatura del velo” non può certo contare sulla fedeltà al regime di una parte consistente di una popolazione in fermento contestatario.
Il messaggio di Netanyahu è un cambio di schema. Fors’anche una trappola. Potrebbe incoraggiare i ‘falchi’ di Teheran a imporre quell’azzardo che darebbero a Bibi il pretesto per agire. Per decidere l’agognato “attacco preventivo”. Considerato risolutivo a Gerusalemme. Prospettiva inquietante. Sappiamo come finiscono i tentativi di imporre la democrazia in Medio Oriente. E con quali conseguenze in tutta l’infiammabile regione.