laR+ IL COMMENTO

Parigi, la festa, le guerre

Lo sport è sempre in relazione intima con la politica mentre i conflitti e la sofferenza sono dietro l’angolo e pure nelle nostre teste

In sintesi:
  • Oggi centinaia di atleti ucraini sono al fronte, non potranno partecipare ai Giochi olimpici
  • Mal si poteva immaginare in piena guerra di aggressione la bandiera russa sventolare negli stadi francesi: esclusione giustificata
  • Ma che dire della presenza di Israele mentre è in atto una carneficina lunga 40mila morti?
(Keystone)
29 luglio 2024
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In “Festa mobile” (“Paris est une fête” nella versione francese) Ernest Hemingway celebrava il suo amore per la Ville Lumière, gli incontri con F.S. Fitzgerald, Ezra Pound, le passeggiate in rue Mouffetard, i “bouquinistes” lungo la Senna. Uno straordinario mix di cultura, di creatività, di spensieratezza. Parigi caput mundi: da una decina di anni uscita dalla Grande Guerra in cui milioni di soldati si erano scannati nelle trincee, la capitale francese suscitava un’ammirazione senza pari.

Anni di ottimismo e speranza, di luce dopo le tenebre. Che sotto il cielo plumbeo prima che si aprissero le cateratte su Parigi e la grandeur, gli organizzatori della cerimonia di apertura dei 33esimi Giochi hanno voluto riproporre a due miliardi di telespettatori. Lungo come la fame, lo spettacolo ha proposto un fritto misto di woke (trans e drag queen in una sorta di banchetto degli dèi apparso agli occhi di molti come una parodia dell’Ultima Cena, un cantante stonato sovrappeso nudo nel ruolo di un improbabile Dioniso), di kitsch (uno su tutti: Maria Antonietta con la testa sulle ginocchia che intona il canto giacobino “ça ira”) e di grande spettacolo (la franco-maliana Aya Nakamura che canta con la Guardia Repubblicana, la magica Tour Eiffel che troneggia variopinta nella notte sulle arie di Ravel). Sono sfilate delegazioni di rifugiati, di micro e macro Paesi, ma anche star giunte con jet privati (e gli accordi sul clima siglati a... Parigi?) per qualche secondo di immagine in mondovisione, sportivi multimilionari franco-compatibili, da Nadal a Zidane (senza Materazzi, peccato, ammicca un commentatore).

Pubblico e opinionisti divisi, come è normale che sia: chi denuncia la bulimia, il cattivo gusto, il troppo che storpia, chi invece plaude a un evento di bellezza mozzafiato, chi ha vissuto un sogno e ne è rimasto incantato. Ma – segno dei tempi – la fête dello sport si è svolta sotto la protezione di uno smisurato apparato di sicurezza, 50mila tra soldati e gendarmi. Condizione indispensabile quanto paradossale per poter celebrare i valori di libertà, fraternità e pace a cui si richiama il Cio. A ricordarci anche quanto lo sport sia sempre in relazione intima con la politica e che le guerre e la sofferenza sono dietro l’angolo e pure nelle nostre teste.

Oggi centinaia di atleti ucraini sono al fronte, non potranno partecipare ai Giochi olimpici. Mal si poteva immaginare in piena guerra di aggressione la bandiera russa sventolare negli stadi francesi. Esclusione giustificata, dunque. Ma che dire della presenza di Israele mentre è in atto una carneficina lunga 40mila morti e dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia su un’occupazione dei territori che viola il diritto internazionale? Interrogativo che potremmo facilmente estendere a molti altri Stati, islamici in particolare. Nel 1914 nelle trincee di Ypres, soldati tedeschi e britannici decisero di far tacere le armi e di stringersi la mano, di scambiarsi doni, quelli del Reich intonarono uno struggente “Stille Nacht”. La tregua di Natale durò poco, affossata dai comandi militari, ma quel ricordo è ficcato come una bella fiaba nella memoria collettiva. Ogni due anni l’Onu chiede formalmente una tregua olimpica. Appello ormai retorico, inutile, specchio di un mondo in frantumi che non si concede neppure una manciata di giorni di pace. La festa sportiva può continuare, le guerre pure.