Domenica nel Gran Premio di Austin il giovane pilota Ivan Ortolà , dopo una caduta, invece che sulla propria moto è rimontato su quella di un rivale
Qualche giorno fa, rientrando dopo una giornata di lavoro, trovo nella buca delle lettere un libro che ho promesso di recensire nelle prossime settimane. Mi stendo e comincio subito a mandarne giù qualche pagina. Scritto bene, coinvolgente, mi tiene incollato al divano per quasi un’ora, finché la fame mi ordina di alzare le terga per aprire una birretta e sbirciare nel frigo per decidere con che cosa riempirmi la panza. Ancora un capitolo – mi dico –, così continuo a sfogliarlo e concludo la prima sessione di lettura con l’episodio che vede l’io narrante e un suo amico, durante una vacanza in Grecia di una cinquantina d’anni fa, accostare al bordo della strada per sgranchirsi schiena e gambe e far raffreddare un po’ la moto su cui viaggiano, che è sotto pressione ormai da diverse ore.
A indurli a fermarsi proprio lì è un cartello scritto a mano che pubblicizza – in inglese – frutta fresca appena raccolta e a prezzi stracciati, munito di una freccia che indica la direzione da prendere, lungo uno strettissimo sentiero fra le sterpaglie, per raggiungere l’ortolano e il suo banchetto di primizie. Arsi dal sole d’agosto, si incamminano bramando l’uva che di lì a poco li avrebbe dissetati e rimessi in sesto prima di proseguire il loro percorso verso la mitica città di Olimpia. Dove però, ahiloro, non giungeranno mai, perché quando dopo nemmeno cinque minuti tornano carichi di frutta sulla strada principale, scoprono che la loro Triumph è scomparsa. Svanita, dissolta, volatilizzata. O ciulata, come dicono entrambi, che affranti per essere stati derubati non possono fare altro che spostarsi sull’altro lato della strada per sfoderare il pollice e mettersi a fare l’autostop e tornarsene indietro, col dubbio mai risolto circa la possibile complicità fra il fruttarolo e i ladri, ai quali è probabilmente bastato sbucare dalla macchia col loro furgone, caricarvi la moto e sgommare ghignando verso il loro ricettatore di fiducia.
Certo che come furto è quantomeno originale – rifletto buttando giù il primo sorso di stout –, difficile idearne uno più efficace e meno rischioso. Ma poi, mentre domenica in serata, di nuovo sul divano, stavo guardando la gara della Moto3 del GP di Austin, in Texas, mi è toccato ricredermi. Le immagini in diretta, infatti, ci hanno mostrato un tentativo di furto di moto ancor più spettacolare, benché dall’esito assai meno fortunato, se lo guardiamo dal punto di vista del ladro. L’aspirante mariuolo, curiosamente, si chiama Ivan Ortolà , cognome che immediatamente – per un caso del tutto fortuito – ci riporta a quella lontana estate greca e al venditore ambulante di frutta, olive e cetrioli. Ebbene, nel corso del secondo giro, alla curva 15, si verifica una serie di contatti fra diverse moto che provocano la caduta di almeno un paio di piloti. Fra questi c’è il nostro Ortolà , diciannovenne spagnolo che, dopo avere speronato l’italiano Stefano Nepa e aver strisciato insieme a lui sull’asfalto per qualche metro, si rimette in piedi e si lancia all’inseguimento del proprio mezzo meccanico, che ha continuato a viaggiare – scosso come succede al palio di Siena – verso la via di fuga.
L’azzurro, rialzatosi poco dopo, invece di rimontare in sella e riprendere a gareggiare, scatta sbracciandosi nella direzione dell’iberico. Sta’ a vedere – penso – che ora va a dargli un cazzotto per averlo disarcionato. Del resto, sarebbe una scena già vista più di una volta, nel Motomondiale. Invece, Nepa sta soltanto andando a recuperare la proprio moto, che non è quella che gli stava accanto dopo la caduta, bensì quella che, nel frattempo, lo spagnolo aveva raggiunto e sulla quale, non accorgendosi dell’errore, era già salito. Nepa lo blocca appena in tempo, gli fa capire che sta clamorosamente mingendo fuori dal vaso e, dopo qualche secondo, riesce a riprendere possesso del suo destriero a quattro tempi. Le due moto erano assai diverse, le livree di colori molto lontani fra loro, eppure Ortolà – in piena trance agonistica – era fermamente convinto di essersi riappropriato del proprio mezzo: perché spesso gli atleti, davvero, mentre svolgono il proprio lavoro è come se si staccassero dalla realtà .