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La fiammata di Kurt Cobain e le ceneri del grunge

Il 5 aprile di 30 anni fa il suicidio del tormentato leader dei Nirvana metteva la pietra tombale su ciò che era stata la scena di Seattle fino ad allora

Kurt Cobain
(Keystone)
5 aprile 2024
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Il liceale che nel 1994 aveva sentito un po’ di sfuggita la notizia del suicidio di un tale leader di un certo gruppo americano dal nome comune ma al tempo stesso evocativo, ascoltando l’ultimo album pubblicato poteva, forse, rimanere perplesso sul perché quel nome, Nirvana, girasse spesso di recente sulla bocca di quelli “alternativi”. Un concerto dal vivo in acustico, unplugged si diceva ai tempi, registrato per la vituperata Mtv. Nulla, a primo ascolto, di troppo scabroso, ma brani che entravano decisamente nel cuore al primo ascolto. Fu il compagno di liceo Salvatore, con l’ennesima musicassetta piratata, a far capire al suddetto liceale che quel sound essenziale ma d’effetto altro non era che il cavallo di Troia per un universo fatto di suoni aspri e urla viscerali, ma che “si lasciavano ascoltare”, anche a un orecchio acerbo e poco avvezzo alla musica “dura”. Fu così che chi scrive, dopo essersi perso, per ragioni anagrafiche, il momento più intenso e al tempo stesso tragico del movimento grunge, finì per esserne inevitabilmente travolto: come, d’altronde, chiunque ai tempi avesse imbracciato uno strumento senza avere la pazienza (o la voglia) di studiare per esprimersi in virtuosismi tecnici ma volendo comunque esprimere “qualcosa”. Bastavano pochi accordi, suoni distorti e tanta sincerità, anche nel look: nessuna necessità di spendere in giubbotti di pelle e acconciature complesse, si va sul palco esattamente con gli stessi abiti con cui ci si veste ogni giorno, jeans e maglietta possibilmente logori e capello a crescita libera che non vedrà mai una piastra o una cotonatura.

Lo ‘sporco’ contro lustrini e virtuosismi

Forse sta qui il più grande merito artistico di Kurt Cobain, che trent’anni fa lasciava questo mondo: l’aver involontariamente tirato fuori l’essenzialità del punk dalle cantine rivolgendo, però, verso l’interno la furia autodistruttiva che il movimento del ’77 aveva dedicato all’ordine costituito. Facendone, insomma, uno strumento in cui incanalare il disagio esistenziale che, passata la stagione delle grandi lotte politiche e sociali degli anni Settanta, negli anni Ottanta era rimasto sopito dietro la rassicurante e luccicosa ostentazione del glam e la graniticità dell’heavy metal con i loro look curatissimi e gli abbaglianti virtuosismi tecnici che coprivano una sostanziale assenza, nei testi, di contenuti sia politici sia introspettivi. O, peggio, arrivavano a volte a esprimere un maschilismo di fondo totalmente contrapposto alle istanze femministe del decennio precedente e che oggi, al netto di ogni tentazione politically correct, suona esso stesso caricaturale e artefatto (citofonare Manowar). Maschilismo con cui Cobain, cresciuto nella cittadina di Aberdeen da lui ritenuta “un covo di bigotti redneck”, era stato confrontato fin da ragazzo e verso cui nutriva un sostanziale disprezzo.

Ciò che fecero i Nirvana (formati, oltre che da Cobain, da Krist Novoselic e Dave Grohl, attuale leader dei Foo Fighters), e con essi il movimento che qualcuno chiamò, quasi dispregiativamente, grunge (sporcizia, sudiciume) e da allora noto con tale nome, fu contrapporre a questa vanagloria estetica e musicale la ricerca di una via più immediata e diretta per esprimere il disagio di una generazione (la cosiddetta “Generazione X”) oscillante fra le solide certezze dei propri genitori e il senso di incertezza per un futuro in cui vengono meno alcuni solidi riferimenti. In quegli anni, giusto a titolo di esempio, cade il Muro di Berlino e con esso la divisione chiara del mondo in due blocchi, Reagan e la Thatcher lasciano la scena politica, in Italia Tangentopoli spazza via la Prima Repubblica.


Keystone
I Nirvana: Krist Novoselic, Dave Grohl, Kurt Cobain

L’eroina e ‘la morte dell’innocenza’

Sullo sfondo, restava la piaga sociale che in quegli anni, sebbene in fase calante, stringeva ancora molti giovani nel suo abbraccio mortale: l’eroina. Senza scadere in luoghi comuni, è difficile scindere il fenomeno grunge dal sottobosco della tossicodipendenza, con il suo carico di sofferenza che, inevitabilmente, mette a nudo la fragilità umana degli artisti aggiungendo una carica emotiva peculiare al suono di Seattle. Nel 1990, agli albori del movimento, l’eroina si era portata via Andrew Wood, frontman di quei Mother Love Bone precursori della scena grunge e in cui militavano Stone Gossard e Jeff Ament che pochi anni dopo fonderanno i Pearl Jam. Chris Cornell, coinquilino di Wood, che con i Soundgarden diverrà una delle icone della scena di Seattle, ebbe a dire che quella morte decretò “la morte dell’innocenza di quell’epoca”.

Kurt Cobain lottò per anni con la tossicodipendenza, dopo aver iniziato a farsi di eroina, a suo dire, per alleviare dei dolori lancinanti allo stomaco che, come da lui stesso rivelato, si erano acuiti a tal punto durante il tour europeo del 1991 da alimentare in lui tendenze suicide: “L’unica cosa che mi salva dallo spararmi ora”, annotava il leader dei Nirvana parlando del consumo di droga. Una spirale autodistruttiva generata, anche e forse soprattutto, dall’improvviso e inaspettato successo planetario della band con l’album ‘Nevermind’ del 1991, che proiettava il gruppo nell’Olimpo musicale e contribuiva in modo determinante a portare sotto i riflettori del mainstream il fenomeno grunge.

Vieni così come sei

Le camicie di flanella e i jeans strappati definivano un’estetica radicalmente opposta a quella scintillante e glam degli anni Ottanta: i quattro semplici accordi iniziali di ‘Smells like teen spirit’ spazzavano via in un colpo l’elettronica e i virtuosismi tecnici dei guitar hero che avevano arringato le folle con le sei corde per decenni. ‘Come as you are’, vieni come sei, diventava il motto di un movimento che avrebbe ridisegnato il suono degli anni Novanta. Il tutto, è da dire, in modo assolutamente involontario, poiché diventare un vate della Generazione X era lontano anni luce dalle intenzioni di Cobain. I testi dei Nirvana si prestano difficilmente a essere ridotti in slogan riproducibili à la carte sui social o su un diario scolastico: Kurt Cobain evoca, piuttosto che “dire” esplicitamente, procede per flash autobiografici spesso criptici, segue flussi di coscienza, lancia segnali sparsi che vanno compresi nell’insieme fino a sforare quasi nel nonsense. Gli stessi titoli sono spesso oscuri, difficili da comprendere e legati a dettagli del vissuto personale legati alle liriche da fili sottili e non facili da cogliere.

Qualcosa però cambierà nell’ultimo lavoro, ‘In Utero’, del 1993: qui i suoni si fanno ancora più sporchi e taglienti, i testi pescano a piene mani nel vissuto del frontman senza però mai essere troppo diretti. “L’angoscia adolescenziale ha dato i suoi frutti/Ora sono vecchio e annoiato”, esordisce Cobain in ‘Serve the Servants’, ferocemente beffardo sul successo ottenuto, in una sorta di brano-manifesto in cui da una parte affiorano i traumi familiari (“Ho provato con tutte le mie forze ad avere un padre/Ma invece ho avuto un papà/Voglio solo che tu sappia che non ti odio più”) e al tempo stesso l’insofferenza per come essi assurgano a temi da gossip (“Quel leggendario divorzio è una tale noia”, chiosa in chiusura del pezzo).

Dopo Cobain, il diluvio sul grunge

Difficile non leggere a posteriori nell’intero album, al di là di alcune smentite da parte dello stesso autore, i segni di una discesa verso l’abisso, una sorta di riassunto della propria vita con una tragica sentenza finale. E proprio nel brano di chiusura, ‘All Apologies’, sembra affiorare il senso di estraniamento e inadeguatezza rispetto al ruolo di rockstar appioppatogli suo malgrado dai media: “Cos’altro potrei dire? Tutte scuse/ [...] Cos’altro potrei scrivere? Non ne ho il diritto/Cos’altro dovrei essere? Tutte scuse [...] Vorrei essere come te, che ti diverti con poco”. Circa un anno dopo, con in mezzo prima un’overdose e poi un tentativo di suicidio con alcol e farmaci dopo un concerto a Roma, così scriverà Kurt Cobain nella lettera d’addio prima di togliersi la vita: “Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole [...]. Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”.

Se la tragica fine di Andrew Wood era stata “la morte dell’innocenza” del grunge, la scomparsa di Cobain ne è, in fondo, la pietra tombale. Nulla sarà come prima: nel 1995 gli Alice in Chains pubblicheranno il loro ultimo lavoro, prima che l’eroina, ancora lei, consumi l’esistenza di Layne Staley fino a portarlo via, tragica coincidenza, proprio lo stesso giorno della morte di Cobain, il 5 aprile del 2002. I Soundgarden si scioglieranno nel 1996 per poi riunirsi sei anni dopo, prima che anche Chris Cornell nel 2017 ceda al male oscuro della depressione. Si salveranno i Pearl Jam, che sceglieranno di percorrere la via dell’attivismo sociale e politico, abbracciando pienamente il ruolo di rockstar e distaccandosi dalla corrente “esistenzialista” del grunge: quella creatura che, nutrita più o meno inconsapevolmente dalla fragilità del figlio dannato Kurt Cobain, l’ha infine divorato.