In scena sabato 27 gennaio al Teatro Agorà di Magliaso, ‘El lamento del volcán’ è il tributo dell'artista ticinese alla grande cantante messicana
Era ‘la dama del poncho rojo’ perché se ne andava in giro con il poncho e i pantaloni, vestita da uomo, fumando il sigaro, guidando auto di grossa cilindrata e motociclette. E portandosi dietro una pistola. “Chavela Vargas non è una cantante messicana, Chavela è il Messico”, disse l’attrice Salma Hayek quando nel 2002 la volle con sé in ‘Frida’ di Julie Taymor, film biografico incentrato sulla vita tormentata di Frida Kahlo, che Vargas avrebbe amato intensamente durante la separazione della pittrice messicana dall’omologo Diego Rivera.
Nata nel 1919, Chavela Vargas, pseudonimo di Isabel Vargas Lizano, si era trasferita dalla Costa Rica nella terra dei Maya all’età di 14 anni iniziando a cantare nelle strade la musica ranchera, brani dai testi decisamente ‘al maschile’; dalla strada, il suo canto era passato alle bettole prima di meritarsi più degne e prestigiose sale di musica, circoli culturali, matrimoni hollywoodiani (Grace Kelly, Elisabeth Taylor). Vargas era diventata professionista nei Cinquanta inoltrati e non aveva registrato canzoni prima del 1961, quando José Alfredo Jiménez, uno dei maestri della musica ranchera, l’aveva supportata nell’incisione di ‘Noche de Bohemia’, il suo primo album. Nel 1979, dopo una lunga battaglia contro l’alcolismo (“I miei 15 anni di inferno”, li aveva definiti), si era ritirata dalle scene per ricomparire vent’anni più tardi in ‘Grido di pietra’ di Werner Herzog, storia di alpinisti che si sfidano sul Cerro Torre, picco andino che sta tra Argentina e Cile. Poco più tardi, Pedro Almodóvar avrebbe rinverdito i fasti artistici della cantante inserendone le canzoni nelle colonne sonore di alcuni suoi film. A fine carriera, gli album di Chavela Vargas sarebbero stati un’ottantina, quanto è bastato per scomodare quelli dei Grammy perché le fosse consegnato, nel 2007, un Lifetime Achievement Award, il grammofonino alla carriera.
È la popolarità (più di tutte) spagnola di Chavela Vargas, oltre che quella messicana, ad aver portato Raissa Avilés a incontrare la sua musica nei giorni spagnoli dell’artista ticinese di origini messicane. «È stato a Barcellona che ho conosciuto la sua opera, ascoltandone i dischi», racconta Raissa. «Avevo 24 anni, cominciavo a cantare, cercavo la musica messicana che ascoltavo da bambina da mio padre e mia madre. L’ho riscoperta e ho scoperto lei e un modo diverso di cantare, ancor più diverso dai cantautori che ascoltava mio padre». Anni dopo, Avilés si è sentita ‘in dovere’ di tributare a Vargas dapprima un podcast, inserito nella trasmissione della Rsi ‘Vulcano’, e poi un recital la cui ‘prima’ risale all’ultimo Grin Festival di Roveredo; un nuovo atto andrà in scena al Teatro Agorà di Magliaso sabato 27 gennaio alle 20.30, all’interno della rassegna di ‘Segni d’Arte’ (è consigliata la prenotazione). ‘El lamento del volcán’, drammaturgia di Daniel Bilenko, una produzione Matrioska, «è un tributo che dice di come la musica di Chavela Vargas abbia scelto me e di come io abbia scelto lei. È la sua storia, che attraversa anche la mia, nel mio essermi avvicinata al canto, ma parlo soprattutto di lei, di come ha cambiato il modo di intendere la vocalità, un’influenza che ha riguardato l’intera musica messicana e, di conseguenza, quella latino-americana tutta».
Tecnicamente, ‘El lamento del volcán’ è presto spiegato: un leggio, una manciata di canzoni – Avilés alla voce e Sara Magon alla chitarra, in brani imprescindibili scritti per Vargas da Tomás Méndez, Agustín Lara o il suddetto Jiménez – e il racconto di una ‘outsider’ capace di scrivere la storia. «Il suo essere controverso le ha precluso i grossi teatri: vestiva come un uomo, non aveva pudori a cantare la rabbia, la violenza, la disperazione profonda e la sensualità, cosa socialmente non permessa alle donne del tempo. Tutto questo non le ha impedito di avere successo nei club e nei locali notturni, mescolandosi con i nomi dell’alta cultura. E comunque era un’altra epoca, un’artista poteva vivere dei suoi concerti e priorizzare altre modalità di vita».
Cosa ha ‘rubato’ Raissa Avilés a Chavela Vargas? «Da Vargas si possono rubare tante cose. Di certo, il suo modo di portare le parole a tutti coloro che la ascoltano, il modo di farle ‘atterrare’: quando canta, sta realmente raccontandoti ciò che dice, ogni singola sua parola conta. E poi le dinamiche, la capacità di essere una carezza e allo stesso tempo un vulcano, di essere scura, di non avere complessi a sporcare la voce, a sporcarla di un’emozione vera, quasi di lacerarla».
Quanto alla portata di una tale figura oggi, Avilés la pensa così: «Al di là di come io possa identificarmi in lei come persona, al di là dell’orientamento sessuale chiaro, credo che per tutte le donne sia importante avere riferimenti di femminilità così forti, che non hanno paura di esprimere ciò che sentono, di non essere compiacenti». Artisticamente parlando: «Vargas faceva concerti voce e chitarra, e una seconda chitarra al massimo; lavorava sulla semplicità e sulla verità della connessione con il pubblico. Oggi che tutto è molto ultraprodotto, arrangiato o riarrangiato, lei è l’essenzialità».
All’età di 81 anni Chavela Vargas dichiarò pubblicamente la propria omosessualità. Tra le molte liaison attribuitele, l’aneddotica include anche quella con Ava Gardner, diva del cinema. Nell’anno del coming out, il Duemila, la Spagna le attribuì la Gran Croce dell’Ordine di Isabella la Cattolica, il più alto riconoscimento al valore artistico previsto in quel Paese.
Dopo un’esistenza passata a cantare le canzoni ranchere senza girare al femminile nemmeno un pronome, dopo avere calcolato, per gioco, la quantità di tequila bevuta in vita (45mila litri), dopo aver cantato ‘Piensa en mí’ con i Pink Martini e ‘Luz de luna’ con i Chieftains, dopo avere inciso il suo ultimo disco ‘La Luna Grande’, omaggio a Federico García Lorca, il 5 agosto del 2012 Chavela Vargas moriva a Cuernavaca, ‘la città dell’eterna primavera’. Poi, nella Plaza Garibaldi di Città del Messico, teatro della sua arte e anche dei suoi eccessi, i rancheros della capitale suonarono davanti alla sua bara, coperta da un poncho rosso.