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L’identità delle fake news

I consumatori di disinformazione credono a cose non vere. Il problema, più ampio, riguarda gruppi sociali e storture della società. Parla Tommaso Piazza

Martedì 5 dicembre alle 20, Orizzonti filosofici organizza a Riazzino una conferenza dedicata alle fake news. Nel riquadro, Tommaso Piazza, professore di filosofia del linguaggio all’Università di Pavia
4 dicembre 2023
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Nel corso del 2016, con il referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump, scoprimmo improvvisamente l’importanza delle fake news, con un moltiplicarsi di dibattiti, analisi e studi su un fenomeno non nuovo – propaganda e disinformazione, viene spesso ricordato, esistono da sempre – ma che grazie alle tecnologie digitali e in particolar modo ai social media minaccia in modi inediti il corretto funzionamento della democrazia. Il dibattito è fin da subito stato multidisciplinare, coinvolgendo anche la filosofia che può aiutarci a «gettare luce su alcuni aspetti del fenomeno della disinformazione», come ci ha spiegato Tommaso Piazza, professore di filosofia del linguaggio all’Università di Pavia e autore, insieme a Michel Croce, ricercatore all’Università di Genova, di ‘Che cosa sono le fake news’ (Carocci 2022). Piazza sarà ospite, domani martedì 5 dicembre alle 20, dell’associazione Orizzonti filosofici (www.orfil.ch) a Riazzino per una conferenza dedicata proprio alle fake news.

Professor Piazza, qual è il contributo della filosofia alla comprensione della disinformazione?

Penso in particolare a due discipline filosofiche, la filosofia del linguaggio e l’epistemologia, cioè lo studio filosofico della conoscenza.

Alcuni filosofi del linguaggio – faccio due nomi: l’inglese John Austin e l’americano John Searle – hanno sviluppato una cosa che si chiama “teoria degli atti linguistici” e che fondamentalmente è una sorta di tassonomia dei modi in cui possiamo usare il linguaggio. Con il linguaggio possiamo descrivere, o tentare di descrivere, la realtà, ma possiamo anche dare ordini, chiedere scusa o complimentarci. Visto che le fake news sono un fenomeno che ha a che fare con il linguaggio, e in particolare con l’uso distorto del linguaggio, utilizzare nozioni sulle quali generazioni di filosofi hanno riflettuto può essere utile per capire esattamente la natura del fenomeno, per capire di che cosa si parla quando si parla di fake news, per trovare una definizione a un termine nuovo che viene utilizzato in modi spesso incompatibili.

Termine nuovo che però spesso non viene utilizzata, preferendo parlare di disinformazione, di propaganda, di informazioni non fattuali o – come ha deciso ad esempio Facebook – di “notizie false” (false news).

Io e Michel siamo d’accordo che il fenomeno al quale ci si riferisce è vecchio quanto è vecchia la società umana. Quello che c’è di nuovo nel fenomeno di cui fake news pretende di essere il nome, sono il mezzo con il quale questa cosa vecchia si propaga, e la scala degli effetti che produce.

Noi ad esempio siamo contrari alla definizione adottata da Facebook perché secondo noi non coglie un aspetto importante del fenomeno. Definire una notizia “fake” significa che è una notizia fabbricata a tavolino per perseguire determinati obiettivi; definirla semplicemente falsa è inappropriato perché si può dire qualcosa di falso in completa buona fede: non basta cioè dire qualcosa di falso per essere accusati di voler disinformare il pubblico. Pure il contrario, si fabbrica una storia che si crede completamente inventata ma che si rivela vera: Facebook non riconduce questo caso alla galassia della disinformazione, ma il punto delle fake news sembra invece proprio essere la deliberata invenzione di contenuti per perseguire i più disparati obiettivi – non necessariamente ingannare.

Quali altri scopi può avere una fake news oltre a far credere a una persona il falso?

Ci sono delle fake news che servono per intrattenere i destinatari. O per indurre dei dubbi che altrimenti una persona non avrebbe. Il che ci porta ai contributi dell’altra disciplina filosofica che ho citato all’inizio, l’epistemologia.

Quali sono gli effetti dannosi delle fake news sul nostro benessere conoscitivo? Se ci atteniamo alla definizione di Facebook di informazione falsa, pensiamo semplicemente che più disinformazione c’è in giro, più credenze sbagliate avranno le persone. Ma così ci perdiamo qualcosa della ricchezza del mondo della disinformazione, perché è vero che nella maggior parte dei casi è così, però in molti altri casi il disinformatore persegue dei fini più sottili che è importante identificarli per riuscire a difenderci e organizzare al meglio la nostra esistenza. A partire da William James, che è stato un filosofo pragmatista americano, in epistemologia abbiamo identificato che ci sono due obiettivi distinti che dobbiamo perseguire come soggetti della conoscenza: avere il maggior numero possibile di credenze vere e, al contempo, minimizzare il più possibile il numero delle credenze false. Sono due obiettivi ben distinti perché sono ben distinte le pratiche che dovremmo adottare per perseguire l’uno e l’altro. Se ad esempio volessi semplicemente evitare di avere credenze false, dovrei mantenermi agnostico su quasi tutto: in questo modo sicuramente non ho credenze false ma, a detrimento dell’altro obiettivo, mi perdo un sacco di credenze vere.

Seguendo questa distinzione, la disinformazione può perseguire il fine di inculcare credenze false, oppure evitare che le persone si formino credenze bene: sono due campagne disinformative ben diverse e lo vediamo, ad esempio, con le fake news che circondano il cambiamento climatico e che spesso non assumono la forma del negazionismo esplicito. La strategia è più sottile: non negano direttamente che ci sia il global warming o che all’origine ci siano le attività umane, ma affermano che ci sono anche altre ipotesi, che la comunità scientifica valuta anche altri scenari. L’obiettivo quindi non è diffondere una credenza falsa, ma ostacolare la formazione di una credenza vera.

I mercanti di dubbi, come descritti nell’omonimo libro di Naomi Oreskes e Erik M. Conway.

Sì. L’esempio classico è quello delle grandi industrie del tabacco che hanno imbastito questa strategia per minimizzare l’impatto dei primi studi che dimostravano una correlazione tra cancro e fumo promuovendo ricerche alternative dai risultati più incerti.

A che cosa è dovuto il successo delle fake news? È solo una questione di capacità di ragionamento del singolo o ci sono altri aspetti?

Ci sono altri aspetti: non siamo gli unici a dirlo, anche se forse in Italia siamo quelli che lo sottolineano con maggior forza.

Inizio da un’espressione, un po’ mercantilistica, che abbiamo coniato: “consumatori di disinformazione”. Il consumo è misurabile, andando a vedere le interazioni che avvengono online intorno ai contenuti giornalistici o pseudogiornalistici, quindi cose come like, condivisioni, commenti. Queste attività di consumo di disinformazione che cosa segnalano? La prima risposta a questa domanda è che chi interagisce con un contenuto di disinformazione lo fa perché ci crede, insomma perché se l’è bevuta. Magari in molti casi è così, ma è difficile accettarla come spiegazione universale: molte delle fake news più popolari e diffuse sono così implausibili che sarebbe ingiusto nei confronti dei consumatori di disinformazione pensare che se la siano davvero bevuta. Abbiamo, è vero, una ricchissima letteratura psicologica sulle distorsioni cognitive, i famosi bias che riguardano tutti noi e che ci spiegano come non sia necessario essere intellettualmente inetti per non riconoscere una fake news, soprattutto in un panorama così caotico come è il mondo dell’informazione. Ma questo spiega il problema fino a un certo punto perché abbiamo una distribuzione diseguale della disinformazione lungo lo spettro politico. Certa disinformazione ha molto successo a destra e poco o nulla a sinistra e viceversa. Questo sembra indicare che il tipo di valori che le persone o le comunità riconoscono è rilevante nel predire a quale tipo di disinformazione saranno vulnerabili. E se a essere rilevanti sono i valori, forse quello che fa davvero una persona quando consuma della disinformazione non è crederci ma segnalare la nostra appartenenza a un gruppo. Non si tratta quindi di soddisfare un bisogno conoscitivo, ma un bisogno sociale, di integrazione con i membri di un gruppo e di distanziamento dai membri dei gruppi rivali.

Abbiamo quindi due tipi molto diversi di consumatori di fake news. Abbiamo anche bisogno di due approcci diversi per contrastare la disinformazione?

Sì. È facile, almeno da un certo punto di vista, identificare possibili soluzioni per migliorare la performance epistemica o conoscitiva del grande pubblico: parliamo di propositi più o meno articolati di educare le persone allo spirito critico, esercitare le loro virtù intellettuali per discendere le cose meritano di essere credute da quelle che non lo meritano o lanciare campagne informative. Sulla carta queste strategie funzionano, anche se gli psicologi che hanno fatto degli esperimenti ci dicono che ci sono dei limiti.

Il vero problema è arginare la galassia della disinformazione nella sua dimensione sociale perché lì non si tratta di fornire strumenti intellettuali migliori ma di comprendere le ragioni profonde del perché le persone vogliono stare in certi gruppi e opporsi ad altri. Spesso queste ragioni hanno a che fare con le storture e le ingiustizie che interessano la società. Una persona che appartiene a delle minoranze oppresse adotterà uno stile di indagine che riflette il tipo di ingiustizie subite e non si fiderà di quelle istituzioni che si sono dimostrate indifferenti o male intenzionate nei confronti di persone come lei. Per risolvere queste situazioni l’unica è risolvere queste storture e promuovere un trattamento equo di tutti i cittadini.