Di falsi miti (no, la pelle non respira) e strumenti con cui ognuno può decidere consapevolmente. Intervista a una tra i più seguiti divulgatori italiani
Per i duecentosessantamila follower su Instagram è la Divagatrice. A dispetto del nome d’arte social che si è data, Beatrice Mautino divaga poco e va dritta al punto. Sia che parli di depositi per scorie nucleari, integratori e se funzionano davvero, come i pidocchi abbiano colonizzato l’America e i nostri capelli, testamento biologico, cosmetici, premi Nobel oppure Oppenheimer e il dilemma dell’atomica. Biotecnologa di formazione, per mezzo di libri, conferenze, rubriche, post, video e podcast spiega i temi più disparati visti con gli occhi della scienza. Chi la legge e l’ascolta – è tra i divulgatori scientifici più noti in Italia, con un buon seguito nella Svizzera italiana – ne conosce lo stile chiaro, non urlato e senza troppi fronzoli con cui tratta gli argomenti; anche quelli ad alto rischio ‘polverone’.
Perché raccontare la scienza e non farla?
Da dottoranda fui mandata a eventi divulgativi universitari. Quel genere di incontri informali con la gente mi fecero capire due cose: non ero capace e dunque avrei dovuto studiare per fare bene; mi piaceva. In particolare mi attraevano il confronto e il trovare il modo di raccontare questioni complesse in modo accessibile a quante più persone possibile. Il racconto della scienza è diventato viepiù rilevante rispetto al fare la scienza e, terminati gli studi, ho optato per una carriera figlia anche della mia idea di un’informazione democratica, ossia al servizio della collettività. In Italia oggi si percepisce chiara la voglia di sapere, data dal fatto che le questioni sul tavolo sono tante. È nato un certo tipo di mercato della divulgazione soprattutto legato alle aziende (come le farmaceutiche), che investono ma hanno un taglio più ‘tecnico’. Invece l’impegno pubblico in questo ambito è nullo e l’informazione è un disastro; basti dire che dalle redazioni dei principali quotidiani sono spariti i giornalisti scientifici, salvo eccezioni come ‘Il Post’ (per il quale lavoro), che ha scelto di puntare anche sull’informazione scientifica.
Cosa fa un divulgatore?
Io cerco di fornire strumenti a chi non ha una formazione scientifica o ne ha una molto specifica, con i quali interpretare la complessità del mondo scientifico. Mi interessano le questioni di attualità e mi piace provare a dare mezzi con cui comprendere discorsi difficili su energia, cibo, clima; cose che hanno un impatto sulla vita di ognuno. Piero Angela diceva che la divulgazione è fornire alle persone le chiavi per aprire le stanze del sapere. Una metafora a mio modo di vedere efficace: apri e finalmente puoi vedere cosa succede in luoghi normalmente preclusi.
I giornali, diceva. La stampa tradizionale ha abdicato al proprio ruolo, ossia dare informazioni verificate e non – semplifichiamo – copia-incollare comunicati stampa?
Non so se sia un’abdicazione o non volerci neanche provare. Le regole sono quelle di sempre: verificare la notizia e dare per scontato che un comunicato sia un’informazione di parte. Il punto è che se la nota stampa arriva da un’azienda, si alzano subito le antenne; se arriva da un’università, che ha un’autorevolezza di un certo tipo, è complicato metterne in discussione il contenuto. Fare giornalismo quando si parla di scienza è indubbiamente più arduo e mi spiego: il giornalista politico non ha problemi a criticare apertamente il politico di turno; ma muovere un appunto a uno scienziato è più difficoltoso nonostante non si tratti di attaccare nessuno quanto semplicemente esercitare il proprio mestiere. Così come per lo sport, pure nella scienza servirebbero giornalisti con le conoscenze utili a capire cosa sia notizia e cosa no. Ma sono rimasti quasi solo i freelance, ai quali però non si affidano i temi rilevanti. La scienza finisce così in una nicchia; quando invece è sempre di più dentro alle cose che contano davvero. Cose su cui magari votiamo o comunque prendiamo decisioni serie, senza però un’informazione vera.
Dice spesso che la scienza è politica e per questo riguarda ognuno di noi e non solamente chi fa politica. In che modo?
Il primo punto è che l’accesso alla scienza, come all’informazione in generale, è alla base della democrazia. Se sui mezzi di comunicazione di massa non lo è, poche persone sono in possesso delle chiavi con cui poter prendere decisioni ragionate. E questo è un problema. In Italia, ad esempio, si deve decidere dove realizzare il deposito per le scorie nucleari. È chiaro che non è un tema solamente scientifico, però dietro c’è molta scienza e al contempo è un argomento politico. E qui si arriva al secondo punto: le questioni rilevanti hanno sia grandi componenti di scienza che aspetti di tipo politico e nel mondo attuale non si possono separare le due cose. Facciamo l’esempio della crisi climatica con la quale siamo confrontati: è una situazione che obbliga gli Stati a prendere decisioni che impattano poi sulla vita delle persone e questa è politica. Il tema è vasto, ma riassumendo: quando si fa informazione sulla scienza, non ci si dovrebbe limitare a esporre come funziona questo o quello; andrebbe raccontato pure il contesto e spiegato il perché di certe scelte politiche, scelte che possono essere disinformate o seguire la pancia delle persone, col rischio di alimentare paure. Oggi più che mai lo ritengo un lavoro importante, che andrebbe fatto maggiormente.
Come possiamo noi riconoscere la buona informazione dalla disinformazione, distinguere lo ‘scientifichese’ dal linguaggio scientifico al fine di costruirci opinioni sulla base di indicazioni valide?
È una domanda dal classico milione di dollari – ride –. È difficile anche per gli scienziati capire cosa sia vero e cosa no. Ciò che può fare la differenza è costruirsi con il tempo una ‘dieta’ mediatica e informativa con fonti selezionate man mano, che hanno dimostrato di essere attendibili. A un certo punto occorre fidarsi di qualcuno: il nocciolo è capire di chi. Io spesso faccio riferimento a colleghi, ricerche o studi, così che le persone vedano cosa sta attorno a un determinato tema e sappiano che ci sono altri ‘pezzi’, di un’informazione fatta in un certo modo.
Si percepisce una crescente diffidenza nei confronti di scienza e medicina, che sembrano aver perso autorevolezza. Oltre che allenatori, pare si sia tutti un po’ scienziati (per non parlare dei ‘virologi’ in pandemia). Come se lo spiega?
In passato la scienza era o appariva più distante; sebbene grandi questioni ci siano sempre state, penso agli Ogm o al nucleare, con scontri tra favorevoli e contrari. Con l’avvento dei social e degli scienziati che oggi si espongono maggiormente in prima persona e dialogano con le persone, parlare di scienza è un po’ come disquisire di calcio: chiunque si sente in diritto di discuterne ed è un bene che ci sia questa libertà. Il problema sorge quando si presentano opinioni come se fossero fatti o si contrappongono esperti ognuno con la propria verità che si scontra con quella dell’altro, mentre la verità è sempre una. Più che di diffidenza penso si tratti di un cambio di panorama: la scienza è entrata nel dibattito pubblico e segue le regole del dibattito pubblico, con tutto ciò che comporta.
Il clima velenoso che si respira specie nei social e un confronto che anche nella scienza si sposta sempre più verso la polarizzazione, non sono frustranti?
Ride. Un pochino sì ed è l’arroganza a infastidirmi. Ciò che si trova sui social credo sia la conseguenza della mancanza di un’educazione al loro uso. Intanto non c’è l’impressione che si stia parlando a qualcuno. Chi ha un certo seguito non è percepito come persona reale, ma una sorta di ‘cartonato’ al quale si può dire qualunque cosa; un po’ come quando si urla alla tv. Per ciò che mi riguarda il grosso del lavoro è calmare gli animi, foss’anche rispondendo uno per uno. Sui social c’è tutto, informazione e intrattenimento; ritengo debba esserci pure una sorta di ecologia. ‘Pulire il pianerottolo’ è importante e il buon esempio dovrebbe essere dato da chi ha numeri più grandi. C’è dunque sì frustrazione, ma anche voglia di provare a mantenere un ambiente sano.
Lei non sponsorizza prodotti né collabora con aziende. Si può e si riesce a far sentire la propria voce tra le molte dei cosiddetti influencer, che magari promettono soluzioni ‘miracolose’?
Nei confronti dell’influencer ‘puro’ il rapporto è simile a quello tra un giornalista e un testimonial della pubblicità di un profumo sul giornale. Li vedo cioè come due lavori diversi: uno, il divulgatore, fa informazione; l’altro, l’influencer, fa appunto il testimonial con cachet di grandezza notevolmente diversa e la distinzione è più o meno chiara a chi guarda. C’è poi un’area grigia fatta di chi mischia informazione e pubblicità, dentro la quale è più difficile districarsi e capire dove sia il discrimine tra pubblicità e non pubblicità e tra chi fa cosa. Molti, dati i miei numeri, mi ritengono un’influencer e quando dico che non accetto sponsorizzate, mi chiedono perché. Non è semplice far passare concetti come conflitto di interessi e indipendenza. Me ne sono fatta una ragione una volta capito che il sistema è questo e che rispetto al passato è cambiato.
Essere donna è una tara nel suo campo?
Sì, decisamente. Le cose stanno cambiando ma lentamente e come nella scienza in generale, il mondo della divulgazione è ancora molto maschile. Nonostante circa la metà dei divulgatori siano donne, i nomi più conosciuti sono pressoché tutti maschili. L’uomo è ancora ritenuto maggiormente autorevole; la donna è bersaglio di più critiche per questioni come il tono di voce sgradevole o il modo di porsi (“sei acida”), per non parlare dell’aspetto. Di un uomo si dice “ah gliel’ha cantate”, di una donna che è isterica.
Nella scienza i falsi miti sono duri a morire. Come si smontano?
È pressoché impossibile. Si può tentare, consapevoli che continuano a vivere e se cadono è perché ne nascono di nuovi. Quindi ad esempio si continua a pensare che i capelli vanno nutriti (spoiler: non è vero, ndr) e la pelle respira. Se fine a se stesso, scomporre i falsi miti è una perdita di tempo. Ciò che invece ritengo abbia senso fare è smontare, per provare a rimontare.
Perché quello che viene visto come naturale (con tutto ciò che può voler dire) è ritenuto innocuo e benefico, mentre quello che definiamo chimico o sintetico è spesso reputato nocivo?
Fa parte della nostra evoluzione, essere diffidenti nei confronti delle novità è un meccanismo innato. Pensiamo alla fatica dei bambini nell’assaggiare cibi nuovi. Il cosiddetto naturale non è tanto qualcosa legato alla natura, bensì alla familiarità; a qualcosa che si riconosce e si conosce essere parte del proprio mondo e che si sa innocuo perché lo si è già provato o altri lo hanno fatto. La chimica, invece, anzitutto è difficile da visualizzare. Olio di cocco o miscela di trigliceridi dell’acido laurico miristico e palmitico sono la stessa cosa, eppure le due definizioni provocano reazioni diverse. Non riuscire a dare una faccia alle cose ci rende più diffidenti. Inoltre la chimica ci ha messo del suo (si pensi agli incidenti di Bhopal o di Seveso), contribuendo negli anni a creare ulteriore sospetto. Ciò che osservo è che non rifiutiamo tutto quello che avvertiamo artificiale o chimico o manipolato; ma dipende dall’uso che ne se ne fa. Nella crema antirughe, per citare un grande classico, si vuole tanta chimica perché deve funzionare, mentre in uno shampoo dal quale si ha qualche aspettativa in meno cerchiamo germi di grano o aloe. Dove c’è un’utilità percepita allora accettiamo che ci sia della chimica; un esempio sono gli Ogm: non li vogliamo da mangiare, però sono in parecchi farmaci e questi ci va bene.
Tutti possiamo dunque fare la nostra parte e raggiungere un livello di competenza adeguato, per ragionare e agire con cognizione di causa?
Prendere risoluzioni per la propria vita e il proprio paese in ambito scientifico deve essere alla portata di tutti. Non è mica necessario sapere come è fatta una centrale nucleare per scegliere se se ne vuole una, o saper creare un Ogm per determinare se questi organismi possono essere venduti. La grossa sfida è far comprendere i pro e i contro di queste applicazioni della scienza davvero a tutti (senza commettere l’errore di andare troppo sul tecnico entrando nei dettagli, per non essere esclusivi) perché una volta compresi, si può decidere. Chiunque ha delle idee indipendentemente dalla propria formazione. La sfida di chi fa divulgazione è rendere ognuno sufficientemente consapevole, così da permettergli di discernere autonomamente.