I palestinesi temono una seconda Nakba, come quella del 1948, che portò all'allontanamento di 700mila persone
“Ma cosa ce ne faremo di quella specie di Vaticano?”. Lo chiese Moshe Dayan ai suoi ufficiali, mentre da una collina sopra Gerusalemme, appena conquistata dall’esercito israeliano, puntava l’indice verso la Spianata delle moschee sovrastante il Muro del pianto, due simboli religiosi, uno per i musulmani l’altro per gli ebrei. Cinico disprezzo, o profetica inquietudine? Di sicuro, 56 anni dopo, l’interrogativo dell’eroe della guerra dei sei giorni ci ricorda la siderale distanza da un’epoca in cui la guida dello Stato ebraico era saldamente nelle mani dell’élite laico-ashkenazita (ebrei di origine europea) e l’odierno Israele guidato dai nazional-religiosi di Netanyahu in guerra contro l’Islam radicale di Hamas. Doppia metamorfosi socio-ideologica. In un micidiale avvitamento, che poteva produrre soltanto successivi disastri.
E siamo ai nostri giorni. Siamo a Gaza. Con Tsahal che prima ordina ai civili palestinesi, su cui si è abbattuto il piombo di una sanguinosissima rappresaglia, di salvarsi trasferendosi nel Sud della Striscia, e che invece bombarda ora anche la parte meridionale dell’enclave (45 chilometri quadrati, 2,2 milioni di abitanti) dove si sono ammassati i fuggiaschi. Ma non basta. Si delinea sempre più l’obiettivo “ideale” di Israele: l’espulsione verso l’Egitto dell’intera popolazione gazawi. Per nulla una fantasia.
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Proteste palestinesi durante un Nakba Day
Lo sconcertante scenario è contenuto in un documento ufficiale dal titolo “Opzioni per una politica sul futuro della popolazione di Gaza”, elaborato a Gerusalemme su richiesta del governo. In esso si tratteggiano diverse ipotesi sul dopo guerra, ma, dando per scontato lo sradicamento finale di Hamas, si privilegia chiaramente quella dell’evacuazione forzata dei palestinesi, che sempre più israeliani sognano o auspicano, culmine allucinante e disumano di una punizione collettiva già in atto. Prospettiva che spiega la paura degli arabi locali per una seconda “Nakba”, un secondo “disastro”, cioè la replica del 1948, quando 700mila palestinesi furono costretti all’esodo, in seguito alla sconfitta degli stati arabi aggressori, fuggiti o cacciati manu militari dall’esercito israeliano verso Gaza, Libano, Giordania, diventando profughi permanenti.
Ora, approfittando della strage jihadista e terroristica del 7 ottobre, nel governo della “deriva messianica”, come la definisce lo storico israeliano Ilan Pappé, c’è chi pensa a una replica. Su cui, come riferisce un’ottima ricostruzione di “Le Monde Diplomatique”, Israele avrebbe già ‘testato’ alcuni dei principali alleati occidentali. Ma c’è anche chi è stato crudemente esplicito: “L’errore di Ben Gurion nel 1948 fu di non portare a termine il lavoro”, ha detto Bezalel Smotrich, ministro e uno degli indispensabili alleati di Netanyahu, eroe dei coloni ebrei (ormai 750mila senza contare Gerusalemme) sostenitore, con l’altro ministro oltranzista Itamar Ben-Gvir, dell’annessione totale della Cisgiordania (“neonazisti” li ha definiti lo storico della “Shoah”, Daniel Blatman). Mentre la ministra Gila Gamliel, chiede alla comunità internazionale di accogliere i palestinesi di Gaza finanziando la loro “reinstallazione volontaria”.
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Si fuggiva con quel poco che si riusciva a portare via
Ancor più significativi, i volantini apparsi al Cairo, con la scontata autorizzazione del regime del generale Al-Sisi: “No alla liquidazione della causa palestinese a spese dell’Egitto”. È infatti nel Sinai che una massa di espulsi da Gaza dovrebbe rifugiarsi, con Israele (dice il documento citato) pronto a sostanziosi aiuti economici all’Egitto “ospitante”. Comunque sull’esempio mondiale, sostengono gli autori, di massicci spostamenti di popolazioni anche recenti, come in Ucraina. Scenario respinto dal Cairo. E da chiunque abbia un po’ di sale in zucca, di cuore, e di raziocinio. Nulla che preoccupi gli ebrei “messianici”. Convinti di interpretare la volontà di Dio.