I ricordi dell’esule Miguel Cienfuegos a cinquant’anni dall’11 settembre 1973, giorno della caduta di Allende e dell’inizio della dittatura di Pinochet
Oggi sono esattamente 50 anni dal golpe militare in Cile: la mattina dell’11 settembre 1973 l’esercito fedele ad Augusto Pinochet iniziò a bombardare il palazzo presidenziale, la Moneda, portando il presidente socialista Salvaor Allende al suicidio. È l’inizio di anni di torture, uccisioni brutali e desaparecidos. Tutto finirà il 5 ottobre 1988 con la vittoria del No al referendum indetto dal dittatore in cui si chiedeva di prorogare il suo potere per altri otto anni. Il ritorno formale alla democrazia è invece datato 11 marzo 1991. Per l’occasione abbiamo chiesto all’esule in Svizzera Miguel Ángel Cienfuegos, direttore artistico del Teatro Paravento di Locarno e autore del libro “11 racconti di un esilio periferico” (Salvioni Edizioni), di raccontarci la sua storia.
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La statua di Allende davanti alla Moneda
Signor Cienfuegos, lei apre il suo libro ricordando la canzone “Chile, la alegria, ya viene”, inno che spianò la strada alla vittoria del No nel referendum del 1988. Ma ricorda anche come l’allegria sia sparita in fretta, lasciando spazio alle disillusioni. Cosa che accadde in quegli stessi anni al Sudafrica di Mandela dopo l’apartheid. Come mai in certe aree del mondo è così difficile creare democrazie solide e ripartire senza lasciare indietro i più poveri?
È vero, pensiamo anche alle Primavere arabe, che non hanno poi raccolto molto. In Cile l’allegria non è arrivata perché non sono davvero cambiate le regole del gioco e il Paese è rimasto economicamente nelle stesse mani di chi comandava durante la dittatura. Credo che tutto parta dal modello economico cileno, iniziato con Pinochet, negli anni ’70, molto prima di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Quando la dittatura iniziò a privatizzare selezionò con un alto grado di nepotismo i nomi delle famiglie a cui sarebbero le passate industrie statali. Alcune famiglie erano molto vicine a Pinochet, ovviamente. Il sistema è rimasto e chi è arrivato dopo non ha fatto granché per cambiare il sistema. Alcune personalità del centrosinistra dicevano che il Paese doveva cambiare a livello di diritti umani, ma il modello economico non andava toccato. E mi dico che magari era l’impegno che avevano preso per non far accadere un nuovo colpo di Stato. Non lo so, tant’è, quel modello è rimasto. Effettivamente il livello di ingiustizia e lo scarto tra le classi è tantissimo. E nulla cambia. La salute è privata e costosissima, e così l’educazione. I trasporti sono tutti privati, le ferrovie statali sono di fatto scomparse.
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Pinochet sull’auto presidenziale nel 1982
Anche le attuali difficoltà a varare la nuova Costituzione sono legati a questi potentati?
La Costituzione di Pinochet del 1980 ha avuto minimi cambiamenti finora, ma quel che è peggio è la mentalità che è rimasta: una mentalità militarizzata, che ha fatto sì che oggi le forze armate e i “carabineros” non hanno cambiato atteggiamento. E una vera democratizzazione non è mai partita. Sembrava, a un certo punto, ma non è stato così. Ora molti analisti cileni dicono: “Eravamo contenti di aver detto no a Pinochet, ma la dittatura è rimasta da qualche parte travestita da democrazia. Il triangolo militari-economia-politica di destra è ancor troppo potente. In Africa, finché non cambierà il modello neocolonialista difficilmente cambierà qualcosa. Lo stesso vale per il Cile finché non cambieranno i veri rapporti di potere.
Nel libro racconta di una tournée teatrale in Cile dopo la fine della dittatura e di questo 12enne di una città mineraria povera e sperduta, Lota, che vi chiede stupito “perché siete venuti qui”? Come dire, ‘siamo gli ultimi, nessuno ci aiuta, nessuno ci cerca’. Nonostante la giovane età aveva capito tutto.
All’inizio degli anni Novanta, dopo il referendum, era un periodo con una carica emotiva incredibile. Era ancora vivo il ricordo di tante sofferenze, delle torture, del colpo di Stato, del coprifuoco. Parlando venivano fuori le emozioni, e si piangeva. Si piangeva tanto in quel periodo. E a Lota, poverissima, con questa miniera che stava chiudendo, queste emozioni erano fortissime. A tal punto che anche un bambino aveva un’estrema chiarezza di cos’era stata la dittatura. Era ingenuo per l’età, ma anche molto lucido, perché probabilmente fin da piccolissimo aveva ascoltato e assimilato le conversazioni familiari. Vedevi nelle loro facce questa miscela di emozioni, la tristezza per gli anni bui, l’allegria per la fine di Pinochet e l’agitazione interiore per l’incognita del futuro.
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Quel che resta degli occhiali indossati da Allende l’11 settembre 1973
Nei mesi precedenti al golpe iniziò a lavorare come elettricista al Clarín, giornale vicino ad Allende. Che ricordi ha? Cosa accadde?
Sapevamo che la possibilità di un colpo di Stato non era lontana. C’erano continue manifestazioni organizzate dalla destra, c’erano i fascisti in piazza che lottavano contro i sostenitori di Allende. Io entrai lì nell’aprile del 1973. Ricordo che appena arrivato ci fu un grande attentato che lasciò tutta la provincia di Santiago e altre città del Cile senza luce. Bisognava attivare un generatore a benzina per poter continuare a lavorare e riuscimmo a farlo, ma già quel giorno capii dove stavamo andando.
E il fatidico 11 settembre?
Sapevamo che il giornale era a rischio perché sosteneva Allende. La mattina dell’11 settembre gli uomini di Pinochet cercarono innanzitutto di occupare le università, le fabbriche e i mezzi d’informazione, a partire dal Clarín e dal giornale comunista El Siglo. Restò solo Radio Magallanes, quella che poi trasmise l’ultimo, celebre discorso di Allende. I militari entrarono nel nostro giornale un’ora prima del bombardamento della Moneda: alcuni furono arrestati. Io, che ero lì dalle 7 del mattino, sono scappato con le prime avvisaglie: il passaggio di un elicottero sopra al tetto e una sparatoria in un edificio vicino. Le prime notizie parlavano di militari a Valparaiso e non pensavamo fossero invece già nella capitale. Sono riuscito a fuggire grazie a un collega elettricista. Io ero bloccato, non sapevo cosa fare; lui mi prese per un braccio, attraversammo un cortile e poi saltammo oltre un muro dove c’era un cantiere della metropolitana. E da lì riuscii poi ad arrivare a casa. Ovviamente i militari distrussero molte cose mentre cercavano persone e documenti e il giornale divenne di proprietà del regime.
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Il dittatore Augusto Pinochet
Lei ricorda anche un incontro casuale con l’autore della celebre “El pueblo unido”, Sergio Ortega, che - essendo molto noto - si era tagliato la barba per dare meno nell’occhio. Come si vivevano questi incontri tra oppositori del regime? Come ci si organizzava?
L’unico modo di incontrarsi era là dove c’erano relazioni famigliari o amici di lunga data di cui ci si poteva fidare. Nei luoghi pubblici si evitava perché non dimentichiamo che molti collaboravano con i militari e un incontro in un bar non sarebbe mai passato inosservato. Le informazioni però passavano attraverso le mamme, che si visitavano l’un l’altra destando molti meno sospetti. I militanti non potevano farlo. Poi ovviamente c’era tutta una rete fatta da coloro che sono entrati in clandestinità, alcuni già prima del golpe.
Le notizie, insomma, circolavano lo stesso…
Circolavano eccome. Faccio un esempio: la dittatura negò per giorni la morte del cantante Victor Jara, torturato e ucciso. Ma noi lo sapevamo già, la notizia era passata di bocca in bocca. Nonostante la sorveglianza si trovavano sempre modi, magari artigianali – e pericolosi se si veniva beccati – per far arrivare le notizie.
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Il cantante Victor Jara, imprigionato e ucciso dagli sgherri di Pinochet
Lei ha raggiunto poi la Svizzera grazie al Comité pro Paz, che si occupava di far uscire le persone dal Paese. Quasi rischi correva?
C’erano dei rischi, ma il primo Comité era un comitato ecumenico legato alla Chiesa. E la Chiesa sperava di non essere toccata dalla dittatura, anche se ci sono stati casi di preti uccisi e incarcerati. Sentendosi minimamente protetta prese dei rischi, aiutata dal Vaticano: ufficialmente dava sostegno alle famiglie di chi era stato ucciso, era in carcere o era sparito. Ma organizzava anche voli verso Paesi che accoglievano esuli.
Quale fu la sua esperienza?
Andare al Comité pro Paz era possibile, ma si temeva che fosse sorvegliato, si temeva di dire una parola di troppo, o di essere arrestati una volta usciti. Il nostro arrivo in Ticino, nel 1974, era pianificato nei dettagli: si sapeva già dove saremmo andati grazie all’associazione “Posti liberi” del pastore valdese di Lugano Guido Rivoir. Ma non potevamo dire nulla a nessuno. Partii poi con la famiglia da Santiago per Buenos Aires fingendo che fosse la tappa finale del viaggio. Invece da Bueno Aires ci imbarcammo per Roma e poi Milano, dove Rivoir ci aspettava per portarci in Ticino. Da quel momento in poi le comunicazioni con la famiglia si diradarono per forza di cose: all’epoca non era come oggi, ci si telefonava a Natale, ci si inviava foto, cartoline e lettere, ma senza raccontare troppe cose, visto il rischio, alto, che qualcuno controllasse la posta. Ho rivisto la mia famiglia solo nel 1989, quindici anni dopo la mia partenza.
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Il Museo della Memoria di Santiago del Cile
E com’era la nuova vita in Ticino?
Il clamore del golpe cileno nel mondo e le grandi manifestazioni in Svizzera, e anche in Ticino, fecero sì che la gente sapesse del dramma che stavamo vivendo. L’accoglienza fu molto calorosa anche perché all’epoca c’erano famiglie che ti ospitavano per un paio di mesi finché non trovavi un lavoro e una casa. Io trovai subito un lavoro, cosa che oggi non esiste. Arrivai il 24 marzo 1974 e ai primi di aprile stavo già lavorando in una ditta di Avegno, la Saita, una stamperia di tessuti. In quei primi mesi conobbi il clown Dimitri, che ospitava un’altra famiglia cilena. Venne a sapere che avevo fatto una scuola di teatro in Cile e mi invitò a partecipare. Una volta nella scuola di teatro, per mantenermi lavoravo anche per l’Eco di Locarno, dove andavo a pulire le linotype che si sporcavano col piombo. Il Clown Dimitri e la scuola di teatro hanno reso senz’altro più facile la mia integrazione, che - come si sa - non è mai facile.
Nel libro cita una frase di Allende: “Non esiste una rivoluzione senza canzoni”. Sembra che più che altrove in Cile il legame con la musica sia inscindibile da quello del movimento per la democrazia…
Anche la Resistenza spagnola e italiana crearono grandi canzoni, ma il Cile ha veramente una produzione incredibile. E le canzoni erano parte integrante della lotta. Ricordo l’arrivo delle audiocassette con le canzoni di protesta. Una tradizione che continua. Ascolto ancora Jara e i cantanti degli anni ’70, ma la vena politica c’è ancora e la musica è stata importantissima anche durante la rivolta del 2019, con una produzione di canzoni di alto livello. La musica in Cile non è sottofondo, ma fa parte di un vissuto concreto che crea legami forti.
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Una protesta anti Pinochet dopo la proposta di farlo senatore
Abbiamo parlato del “Pueblo Unido”, di Victor Jara, di Allende. Non crede che a volte certa sinistra, in Europa si riempia la bocca e la bacheca di queste immaginette, a partire da Che Guevara, per mostrare solidarietà con i popoli sudamericani, ma poi nel concreto sappia poco di quel che accade lì? Quasi con snobismo, applicando una sorta di colonialismo culturale...
Si parla poco di America Latina, si parlò poco delle proteste del 2019 e pochissimo della lotta quotidiana del popolo Mapuche nel sud del Cile. Manca un’attenzione profonda e ci si rifugia in luoghi comuni. La memoria è importante, ricordare Allende e le vecchie canzoni pure, le ascolto anche io. Ma il Cile è un Paese vivo e dovremmo rinnovare la curiosità verso il mio Paese dopo questo anniversario. Però sì, i santini sono disturbanti, ricordo il fastidio che si provava vedendo Che Guevara sulle t-shirt di mezzo mondo. Così si banalizza una figura, una storia.
Nel libro menziona un altro profugo cileno arrivato in Ticino nel 1974, “El Rei”, una fucina di aneddoti, compreso quello dell’esiliato ignoto, una tomba inventata di sana pianta nel cimitero di Breganzona la mattina dopo una nottata di bagordi.
Lui era una persona che aiutava tutti, ma anche un grande affabulatore. I suoi racconti non si sa fino a che punto fossero veri, ma erano troppo belli. D’altronde Gabriel García Márquez ricordava sempre il filo sottile tra verità e menzogna e parlava di “menzogne vere”. Siamo pur sempre figli della terra del Realismo magico.
Davanti a quella tomba, che portava in realtà il nome ticinesissimo di Giacomino Bernasconi, “El Rei” scrisse su un pezzo di carta: “Qui giace l’esiliato ignoto. Non si sa da dove sia venuto né che lingua parlasse, non si sa la sua fede religiosa né quale ideologia abbracciasse. I suoi resti riposano qui, in omaggio a tutti coloro che hanno dovuto abbandonare la propria Patria perché perseguitati, finché la morte li ha chiamati in terre lontane”.
Teatro Paravento
L’esule cileno in Ticino Miguel Cienfuegos con il suo libro