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Fatue speranze

Circa un anno fa, percorrendo più volte all’alba la tratta ferroviaria tra Bellinzona e Airolo, mi sono imbattuta in passeggeri reduci da viaggi strazianti. I loro occhi racchiudevano il dolore di un distacco, ma anche la speranza in un futuro migliore.

L’orario così precoce di quelle partenze racchiudeva però alcune domande. Come si arriva così presto nella capitale? Dove hanno dormito, queste persone disperate, se lo hanno fatto? Chi li ha accolti?

Se la valigia che porti con te svela che tipo di viaggiatore sei, loro non avevano con loro praticamente nulla: qualche rara volta un microscopico zaino, un cellulare con l’immancabile caricatore e una bottiglietta in PET da riempire alla fontanella della stazione. Durante il viaggio intrapreso al sorgere del sole, cercavano di farsi minuscoli, quasi invisibili, evitando qualsiasi sguardo che avrebbe potuto trasformarsi in una lancinante e dolorosa ferita, frutto di qualche domanda.

Qualche settimana fa, di ritorno da Milano con l’ultimissimo treno in direzione del Ticino (capolinea a Bellinzona), in partenza da Porta Garibaldi alle ore 22.46, ho ritrovato con mio grande stupore gli stessi sguardi in una stazione deserta. Non c’era nessun membro del personale ferroviario, nessuna persona se non qualche addetto alle pulizie. Solo un treno.

Nel silenzio della sera, con discrezione e assoluta attenzione, i viaggiatori sono saliti e hanno preso posto, uno a uno negli angoli, ben separati, delle carrozze. Ho riconosciuto lo stesso dolore ma anche la stessa speranza, il tutto avvolto da movimenti calibrati e leggeri, come se sospendessero il respiro per svanire ulteriormente. Scorrevano le stazioni, con cambio a Gallarate, dove gli enormi containers e le gru di carico ci ricordano che si tratta di una importante via di traffico. Altri viaggiatori sono saliti. Gli stessi sguardi!

Il viaggio è proseguito in direzione del Ticino, attraversando anche la frontiera, invisibile! Nessun controllo, nessuna verifica di un titolo di trasporto valido. Nemmeno per me.

Ecco dunque finalmente risolta la questione che mi ero posta dodici mesi prima, quando mi ero chiesta da dove provenissero quei viaggiatori che approdavano a Bellinzona e che poi ripartivano all’alba, con il primissimo treno verso nord.

Arrivati nella Capitale, nel solito silenzio, nella consueta discrezione e nel timore di essere notati, questi viaggiatori si sono sparpagliati tra i perrons e i sottopassaggi per trascorrere qualche ora chissà se di sonno o di ansia per poi riprendere, sempre silenziosamente, all’alba il viaggio verso nord.

Ma quale è la loro destinazione? Dove andranno?

Ora la questione si fa spinosa e dolorosa. E mi pongo domande.

È questo il modo di offrire una speranza a chi fugge da una così grande sofferenza?

È questa la maniera di gestire i flussi migratori di persone che cercano un futuro migliore?

Il metodo del “chiudo gli occhi per un attimo e tu devi sparire” ci porterà a soluzioni di maggior spessore umano e culturale?

Potremmo scambiare questo tragitto per un Corridoio Umanitario ma in realtà è solo ipocrisia.

“Vai fino a dove puoi, affrettati cercando di non essere notato perché quando riapro gli occhi, se ti prendo, ritorni alla case de départ”.

Uno, due, tre… stella! Un gioco che si faceva da bambini, ma che ora è diventato pratica nella gestione dei flussi migratori? Umanità, dove sei?