Hanno fondato la Premier League, ma non l’hanno mai giocata. Ora lo faranno con Mpanzu, il primo calciatore in cinque serie diverse con la stessa maglia
Arrivare a Luton di notte ha un che di spettrale, macabro. È tutto più buio di quel che dovrebbe essere, tutto più sinistro di quel che ti puoi immaginare da un città di 215mila abitanti con un moderno aeroporto con su scritto Londra, anche se la capitale, quando arrivi, è ancora lontana 50 chilometri.
Arrivare la domenica – giorno in cui il Regno Unito di fatto chiude (calcio a parte) e abbassa le serrande perfino più della Svizzera – vuol dire non sapere se si è fortunati a trovare l’ultimo negozietto o l’ultimo pub aperto, dove ti squadrano da capo a piedi come se non arrivassi da un altro Paese, ma da Plutone.
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I giocatori del Luton dopo un gol
In quel momento pensi che basterebbe un po’ di luce, qualche saracinesca alzata per stare meglio. E invece quando arriva il giorno rimpiangi quasi il buio che almeno assolve a dovere il compito di non farti vedere l’ennesima città inglese decadente, come si usa dire. In realtà Luton è già decaduta da un pezzo, enorme dormitorio per gente che starebbe volentieri da un’altra parte.
Come tutte queste città che della città – così come le intendiamo – non sembrano avere niente, Luton appare un luogo dimenticato da Dio, ma non dalle compagnie low cost, e nemmeno dal calcio.
Eppure c’è stato un momento in cui perfino il calcio – almeno quello d’élite – sembrava essere l’ennesimo passeggero che si presentava al gate delle partenze senza un biglietto di ritorno. Era l’anno 2009, la squadra locale, che aveva combinato tutto quel che non si dovrebbe in ambito amministrativo, si era presa 30 punti di penalizzazione. Giocava in League 2, il quarto livello del calcio professionistico inglese. Di colpo si ritrovò a giocare tra i dilettanti, in Conference League: sebbene ci sia solo una serie di differenza, il solco è molto più grande.
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Le scale che portano al settore ospiti
Finire oltre il confine della League 2 per molti storici club ha significato l’inizio della fine e la caduta verso la Sunday League, quel campionato con birra e fish & chips non solo sugli spalti, ma anche negli spogliatoi. Qualcosa di molto simile alle partite tra scapoli e ammogliati.
Il Luton Town Football Club – nato in quegli anni (1885) in cui fuori dal Regno Unito i campi da calcio erano una rarità esotica – non è mai stato una squadra gloriosa, nel senso più immediato, ma – diciamolo – anche meno romantico del termine: non è un club da titoli, coppe e nomi da copertina. In bacheca di luccicante c’è solo una Coppa di Lega, vinta nel momento migliore, gli anni Ottanta: esattamente il 24 aprile 1988.
Una finale di quelle che sembrano una sceneggiatura: a Wembley, sotto 2-1 con il favoritissimo Arsenal a otto minuti dalla fine. Pareggio all’82’, gol vittoria al 90’. Se lo ricordano ancora tutti, lì, dove c’è ben poco da ricordare, il gol di Brian Stein, che a Luton ha passato dodici dei suoi diciotto anni di carriera. Stein, quasi 400 partite con la maglia arancione del Luton, è nato a Città del Capo, ma da bambino aveva seguito durante la rocambolesca fuga in Inghilterra il padre Isaiah, pugile e membro dell’African National Congress di Nelson Mandela ricercato dalla polizia sudafricana degli anni dell’apartheid. Stein giocherà una solo partita con la nazionale inglese e tre con l’Under 21 (segnando tre reti). Il suo nome però resta legato a quel gol, culmine degli anni felici.
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La festa per la vittoria in Conference League nel 2014
Il Luton Town – che aveva già raggiunto una finale di Coppa d’Inghilterra, poi persa contro il Nottingham Forest, nel 1959, retrocedendo l’anno dopo – non era però un imbucato, ma una presenza stabile nel grande dannato calcio inglese del periodo degli hooligan. Dal 1982 al 1991 giocherà sempre nella massima serie, chiamata allora First Division, con un settimo e due noni posti (e due semifinali di Coppa d’Inghilterra).
Purtroppo per il Luton la retrocessione arriva nella stagione più sbagliata di tutte: 1991-92, l’ultima prima della nascita della Premier League, quella che – negli anni – porterà il campionato inglese a essere per distacco il più importante e ricco del mondo. Con un’ulteriore beffa: in quanto iscritto alla First Division, il Luton fu uno dei club ideatori e firmatari della Premier League, che però non ha mai potuto giocare.
Lo potrà fare dal 12 agosto, dopo una rincorsa durata 14 stagioni con dentro quattro promozioni, l’ultima ai rigori, sempre a Wembley, il 27 maggio scorso, nella finale playoff contro il Coventry City. Per fare il percorso opposto, dalla Serie B inglese ai dilettanti della Conference, erano bastati tre anni di ruzzoloni calcistico-finanziari.
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L’ingresso del settore ospiti, dentro una casa
La risalita ha tanti nomi che dicono poco o niente e uno che riassume tutto: Pelly Ruddock Mpanzu, che oggi ha 29 anni e quando è nato, il 22 marzo 1994, il Luton Town già da due anni guardava la Premier League in tv. Mpanzu, inglese di nascita – ma anche lui come Stein di origine africana (congolese) – era arrivato a un passo dall’esordio con il West Ham: scartato ha dovuto ricominciare tutto daccapo come in un gioco dell’oca con il pallone al posto dei dadi.
Sceglie il Luton Town con cui centra al primo colpo la promozione più difficile, quella che riporta gli Hatters (i “cappellai”, questo è il soprannome, dalle fabbriche di cappelli della zona) tra i professionisti. Mpanzu resta e gioca in League 2, League 1 e Championship. Resterà anche quest’anno, in Premier League, diventando il primo giocatore della storia ad aver giocato con la stessa maglia in tutte e cinque le maggiori categorie del calcio inglese.
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Collage della Premier League dedicato a Mpanzu
Mpanzu e compagni esordiranno sul campo del Brighton, la domenica dopo avrebbero dovuto giocare contro il Burnley a Kenilworth Road, lo stadio di casa. La partita però è già stata rinviata e il vero esordio casalingo dovrebbe essere, salvo complicazioni, il primo settembre proprio contro la squadra che non credette in Mpanzu, il West Ham. Perché di solito non tutto torna, ma in questa storia sì.
Il motivo del rinvio è semplice quanto incredibile, lo stadio di Kenilworth Road, uno dei più vecchi di tutto il calcio professionistico inglese (costruito nel 1905), è troppo piccolo e inadeguato per ospitare una partita di Premier League.
Dire che è piccolo non basta: certo la capienza da 10’350 spettatori non fa pensare al campionato più grande e ricco del mondo. Ma i numeri, come sempre, non spiegano tutto. Kenilworth è una specie di monumento al calcio che fu, con lo stadio letteralmente ricavato dentro le classiche case di mattoni rossi, in simbiosi a tal punto che per raggiungere il settore ospiti si entra in un cancello ricavato in una casa e si passa tra due scale incastonate in giardini e terrazzi privati. Non solo puoi vedere il servizio da tè di chi ci vive dentro, ma pare che durante le esultanze per i gol qualche servizio sia volato a terra per le vibrazioni dello stadio e – di conseguenza – dei palazzi che lo circondano.
Nonostante i 105 milioni di sterline arrivati con la promozione in Premier, il Luton Town resta il club più povero ai nastri di partenza. Il mercato finora è stato deludente con l’arrivo di alcuni comprimari da Aston Villa e Wolverhampton e una giovane speranza del Manchester City. Per salvarsi, insomma, servirà un motivatore: ma quello pare ce l’abbiano già, è l’allenatore Rob Edwards, gallese con un’onesta carriera di seconda fascia e dieci presenze in Premier League. L’anno scorso, in un momento di flessione della squadra, si accorse che i giocatori passavano troppo tempo al tavolo da ping pong, a suo dire deconcentrandosi. “Potevo parlare con loro e convincerli che era meglio allenarsi in palestra. Ma ho deciso che facevo prima a bruciare il tavolo”. Un po’ démodé come metodo, ma ha funzionato.