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‘Il gomito migliora, ma è stata dura a livello mentale’

Filippo Colombo a tre mesi dalla caduta alla Roubaix: ‘Recupero più veloce per la frattura al bacino. La sicurezza è un tema ancora troppo poco dibattuto’

Il sogno è di tornare a vestire la maglia rossocrociata ai Mondiali di Glasgow
5 luglio 2023
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Era il 9 aprile 2023 e proprio nella domenica di Pasqua era iniziato il calvario di Filippo Colombo. All’entrata della Foresta dell’Arenberg, in occasione del suo esordio sul pavé della Parigi-Roubaix, il biker ticinese, in maglia Q36.5, era rovinosamente caduto, trascinato a terra dal ruzzolone di due corridori davanti a lui, tra cui Dylan van Baarle, campione in carica sui sassi dell’Inferno del Nord. Colombo era stato costretto al ritiro e la diagnosi si era rivelata impietosa: gomito sinistro fratturato e prima parte della stagione di mountain bike in archivio ancor prima di iniziare. Sono trascorsi quasi tre mesi dall’infortunio e il ticinese sta pian piano ritrovando sensazioni che lasciano intravedere il possibile ritorno in gruppo prima di fine stagione…

«Tutto sembra andare più o meno secondo i piani – afferma il 25enne di Bironico –. Da qualche settimana ho ripreso a uscire in bicicletta e come intensità di allenamento ho già raggiunto un buon livello. Sono piuttosto soddisfatto del mio stato di forma e dei valori che riesco a raggiungere durante le sedute di preparazione. Ovviamente, non posso affermare di essere al 100%. Il gomito è ancora avvolto da un piccolo tutore e rimane molto debole, per cui riscontro difficoltà di movimento, scarsa forza e, soprattutto, un deficit di estensione di circa 20 gradi. Ed è proprio questo l’aspetto che più di tutti mi limita durante gli allenamenti, in particolare in discesa, dove faccio ancora parecchia fatica. Per il momento non devo pensare al possibile rientro alle competizioni, ma soltanto a lavorare per far sì che quel momento possa arrivare il più presto possibile».

‘Cinque ore e mezza sotto i ferri’

Due anni fa, una caduta in Coppa del mondo ad Albstadt, gli aveva causato la frattura del bacino, rischiando di compromettere la sua partecipazione alle Olimpiadi di Tokyo. Due infortuni gravi in due anni, ma Colombo non ha dubbi su quale sia stato il più difficile da gestire… «È vero, non è facile trovare la forza per ripartire, ma a livello mentale l’infortunio di quest’anno è stato molto più impegnativo. Il processo di guarigione è stato ed è tuttora molto, molto lento e si fatica a intravedere progressi. Nel 2021, per contro, la prima settimana dopo la caduta aveva portato con sé un dolore intenso, tuttavia nel giro di poco tempo i miglioramenti erano stati sensibili, ero potuto tornare in bicicletta abbastanza in fretta, con pochissimi rulli. A conti fatti, avevo perso un numero molto limitato di competizioni. La frattura al bacino era piccola e composta, tant’è che non mi ero dovuto sottoporre a intervento chirurgico. Stavolta, invece, ho trascorso 5 ore e mezza sotto i ferri per ricostruire un gomito di fatto sbriciolato in una decina di fratture. Per ricomporre l’arto sono servite una placca e una quindicina di viti. In questi mesi non ho però dovuto portare il gesso, ma una semplice stecca: secondo i medici, infatti, il gomito ha bisogno di una minima libertà di movimento per far sì che non si calcifichi in modo sbagliato».

Tornare in bicicletta è stata una vera impresa… «È stata molto dura, anche perché nelle prime sette settimane non sono potuto uscire all’aperto e mi sono dovuto accontentare dei rulli. Non avevo nemmeno la forza per reggere il manubrio, per cui ho dovuto costruire una sorta di imbragatura appesa al soffitto e che reggeva la parte superiore del corpo. Da quando ho potuto tornare ad allenarmi all’aperto, la situazione è sensibilmente migliorata, ho ritrovato l’amore per il mio sport e la voglia di prepararmi al meglio per la seconda parte della stagione».

Parliamo dei tempi di recupero per poter tornare a gareggiare… «Da domenica mi trovo in Engadina per preparare il mio rientro, ma al momento non è possibile fissare una data, occorre osservare l’evolversi della situazione settimana dopo settimana. Sto progredendo e, uscita dopo uscita, le sensazioni migliorano. Se tutto dovesse filare liscio come l’olio, spero di poter essere al via dei Mondiali di metà agosto a Glasgow. Se non ce la dovessi fare, in coda all’appuntamento iridato la Coppa del mondo proporrà ancora quattro appuntamenti, tra i quali la trasferta in America per le gare di Snowshoe negli Stati Uniti e a Mont-Sainte-Anne in Canada, su tracciati lungo i quali ho spesso ottenuto buoni risultati. Sarebbe l’occasione ideale per chiudere la stagione su una nota positiva».

‘Nessuno ha colpa per quanto successo’

Sarebbe lecito supporre che l’incidente alla Parigi-Roubaix abbia fatto riflettere Colombo sull’opportunità di cimentarsi con il ciclismo su strada, portandolo a rivedere le priorità per il prosieguo della carriera. E invece… «La caduta non ha modificato i miei piani. Di certo, fino all’anno prossimo l’accento verrà posto sulla mountain bike e sulle Olimpiadi di Parigi. Tuttavia, al momento non abbiamo definito quello che sarà l’approccio primaverile alla stagione nei boschi, prima di prendere una decisione occorrerà innanzitutto capire quale sarà il piano gare del cross-country. Una cosa è però certa: se un giorno dovessi tornare a disputare le gare del Nord, lo farei con una preparazione specifica e con l’obiettivo di provare a fare risultato e non solo quale semplice esperienza. Non mi sono pentito della scelta fatta, è comunque stata un’esperienza importante nel mio percorso di crescita. Sarebbe troppo facile criticare la decisione con il senno di poi e sulla base di quanto successo. Fino all’Arenberg, la mia campagna del Nord era andata molto meglio di quanto mi sarei immaginato, stavo bene e la condizione fisica era in crescita. Sappiamo tutti che quelle corse nascondono molti pericoli e che chi vi partecipa si espone a numerosi rischi: ritengo però necessaria una certa dose di fatalismo, è inutile piangere sugli avvenimenti passati. Mi sarei potuto infortunare il giorno dopo in allenamento, oppure alla prima uscita in mountain bike, per cui non me la sento di colpevolizzare la squadra per avermi proposto di prendere parte alle gare del Nord».

‘Conoscevo bene Gino Mäder’

A nemmeno tre settimane dal dramma, non è possibile non accennare alla morte di Gino Mäder al Tour de Suisse… «Lo conoscevo bene, siamo dello stesso anno e abbiamo svolto assieme la scuola reclute. Nonostante gareggiasse per il Vc Mendrisio, le occasioni di confrontarsi direttamente sono state scarse, in quanto impegnati in discipline diverse. Con lui non avevo un contatto regolare, ma la notizia mi ha comunque scioccato».

In molti hanno puntato il dito contro l’organizzazione e contro un finale di tappa praticamente in discesa… «Ancora una volta, non mi sento di colpevolizzare chi ha disegnato quella tappa. Purtroppo, gli incidenti fanno parte del nostro mestiere, per quanto possa sembrare incredibile che Gino sia caduto proprio in quel punto. È una discesa che tutti i ciclisti svizzeri conoscono benissimo, per i numerosi campi d’allenamento svolti in Engadina. L’Albula dal versante di La Punt lo abbiamo affrontato tutti decine di volte e anche Gino lo conosceva benissimo. È caduto proprio nella parte più veloce, quella che precede il primo tornante. Non so come sia potuto accadere, anche perché non conosco le conclusioni dell’inchiesta. A livello generale, la sicurezza nel ciclismo su strada è un tema ancora poco dibattuto e un po’ mi sorprende che gli atleti continuino a essere scarsamente organizzati nella difesa dei loro diritti».

Si è ipotizzato di limitare la velocità o di evitare gli arrivi in discesa, tuttavia sembra molto difficile trovare delle soluzioni concrete per migliorare la sicurezza… «Su quanto successo al Tour de Suisse non me la sento di prendere posizione, non c’ero e non ho vissuto quei giorni in prima persona. Per contro, un’analisi la si può abbozzare per quanto attiene alla Roubaix. Iniziando con il dire che l’Arenberg, così com’è, è un passaggio killer e suicida. Lo si potrebbe benissimo affrontare dalla parte opposta e lo spettacolo non ne risentirebbe. Sinceramente, non capisco come mai non vi sia una pressione da parte dei corridori per invertire l’entrata nella Foresta. Prendendola al contrario, si arriverebbe in leggera salita e con una curva quale “cancello d’entrata”, curva che obbligherebbe tutti a rallentare: quel budello in pavé farebbe comunque selezione, ma sarebbe una selezione fisica e non legata a chi riesce a sopravvivere a una sorta di roulette russa. Invece, si preferisce entrare nell’Arenberg in discesa, a 70 km/h dopo una vera e propria volata per assicurarsi le posizioni in testa al gruppo, “atterrando” su sassi messi lì alla rinfusa. Se contassi qualcosa nel ciclismo su strada, farei di tutto per cercare di modificare quel passaggio. In questo senso, l’associazione dei corridori dovrebbe avere più voce in capitolo e fare tutto il possibile per rafforzare la sicurezza durante le corse. Almeno là dove è possibile farlo senza peraltro intaccare la spettacolarità di questo sport».