Un’analisi Ustat evidenzia il basso tasso di successo delle candidate, ma illustra anche un positivo coinvolgimento, specie tra le giovani
Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. Ma soprattutto le elette, che nel caso delle ultime elezioni cantonali non solo risultano due in meno rispetto a quattro anni fa, ma costituiscono anche una quota di genere significativamente inferiore rispetto a quella delle candidate. Se gli ostacoli per le donne non mancano, l’analisi dell’Ufficio di Statistica (Ustat) appena pubblicata sulla rivista ‘Dati’ mostra però anche dati storici incoraggianti circa l’affermazione femminile sul proscenio della politica locale, che stavolta ha visto un numero record di candidati in Gran Consiglio – 916, di cui 367 donne – e il ritorno di una donna al governo, la socialista Marina Carobbio. Ne parliamo con l’autore dello studio Mauro Stanga.
Cosa evidenzia il vostro lavoro su ‘Candidature, partecipazione, selezione’ per quanto riguarda l’affermazione femminile?
Vediamo che questa volta le urne hanno rappresentato una sorta di filtro negativo: se le donne costituivano il 40,1% dei candidati, la percentuale scende al 32,2% tra gli eletti. Questa discrepanza non si era registrata alle elezioni precedenti. Il peggioramento rispetto al 2019 si traduce anche in un arretramento in termini di seggi: se ne sono persi due (29 contro 31, ndr).
D’altro canto, guardando al lungo periodo si nota comunque una tendenza a una maggiore affermazione femminile.
Sì, anche se si è trattato di un percorso che parte da lontano. Quando nel 1971 si consentì finalmente alle donne di votare e candidarsi, si ‘crearono’ 25 nuovi seggi, passando da 65 a 90: evidentemente si ipotizzava che la quota aggiuntiva sarebbe stata occupata da donne. Invece così non è stato addirittura fino al 2019, primo anno in cui quel numero di elette è stato raggiunto e superato. D’altra parte, sul lungo periodo si vede un avanzamento. Si direbbe che molte campagne e iniziative per incoraggiare la partecipazione femminile – soprattutto negli ultimi anni – abbiano effettivamente dato i loro frutti. Una tendenza che trova un corrispettivo anche nella partecipazione al voto.
In che senso?
Vediamo che le donne fino ai cinquant’anni votano leggermente più degli uomini, proporzione che invece si inverte presso l’elettorato più anziano. Si tratta di un fenomeno – limitatamente alla sua prima componente – abbastanza nuovo, verosimilmente legato anch’esso a una maggiore sensibilizzazione, a un più ampio coinvolgimento.
Per il futuro possiamo dunque aspettarci un’‘onda lunga’, con le donne che sorpasseranno gli uomini anche tra gli elettori più anziani?
In realtà, da almeno vent’anni – dunque anche al succedersi delle generazioni – vediamo che tra i pensionati gli uomini continuano a votare sensibilmente di più. Al di là dell’appartenenza generazionale, dunque, gioca forse un ruolo preponderante il cambiamento degli ambienti di socializzazione una volta lasciata la vita professionale: possiamo ipotizzare che gli uomini continuino a frequentare ambienti nei quali la politica rimane un tema rilevante, mentre le donne si avviano verso realtà – anche associative – meno contigue alla politica. Comunque staremo a vedere, non si può escludere un cambiamento di queste tendenze negli anni a venire.
Sempre a proposito di anagrafe, i giovani partecipano poco mentre oltre un terzo dei votanti è pensionato. Questo fattore rischia di frenare il raggiungimento della parità di genere?
Sarebbe improprio attribuire determinati risultati a una parte (per quanto cospicua) dei votanti. I dati in nostro possesso in tutti i casi non lo permettono. Di vero c’è che la categoria più penalizzata dalle urne è quella dei più giovani: 104 erano i candidati tra i 18 e i 25 anni in corsa per il Gran Consiglio e solo uno è stato eletto (Yannick Demaria, primo gran consigliere nato negli anni 2000). D’altro canto gli ultra 65enni sono poco rappresentati tra i candidati e lo sono ancora meno tra gli eletti.
In definitiva ritengo si possa prestare fede a Brassens, che con un burlesco “le temps ne fait rien à l’affaire” ci ricorda che non sempre l’anagrafe è rilevante, quando si parla – diciamo così – di schieramenti e opinioni. Ci si potrà tutt’al più attendere, da parte dei votanti in età più avanzata, una tendenza a premiare candidati che sollevano temi che toccano più da vicino anche la vita dei pensionati, questo sì, e sarebbe del tutto legittimo.
Il dato sull’affluenza è il più basso di sempre, ma non si tratta di un calo verticale e repentino. Se osserviamo la cronologia della partecipazione, vediamo due ‘gradoni’: il primo – dall’80% al 70% – si registra nel 1971 ed è spiegabile come assestamento all’introduzione del voto femminile, che ha determinato un raddoppio degli aventi diritto. Poi, dopo quasi un trentennio ‘piatto’, un calo di analoga portata – dal 70% al 60% – si registra nel giro di un paio di elezioni tra il 1999 e il 2003. Cos’è successo?
Quello cui abbiamo assistito al volgere del secolo non è un fenomeno specificamente ticinese, per quanto in ciascun Paese e regione esso abbia seguito modalità caratteristiche. L’antipolitica, la nascita di movimenti populisti, un atteggiamento in generale sempre più critico nei confronti della politica stessa e dei partiti storici – oltre agli stravolgimenti nel contesto internazionale a partire dalla caduta del Muro di Berlino – hanno investito un po’ ovunque nei Paesi occidentali la partecipazione al voto, facendola calare sensibilmente.
La prospettiva cambia se al dato storico sostituiamo quello geografico: la partecipazione ticinese alle elezioni cantonali (56%) resta molto più alta di quella di ciascun altro cantone tranne il Vallese (59,5%) e Sciaffusa (57%). A Ginevra vota il 36,2% degli aventi diritto, a Berna solo il 31,9%. Cosa determina questo risultato?
Per quanto riguarda il Ticino, sappiamo da tempo che motivi storici, culturali e linguistici ne fanno uno dei pochi cantoni in cui le elezioni cantonali sono più sentite di quelle federali: la partecipazione locale è dunque marcata. Sciaffusa invece è l’unico cantone in cui c’è una multa di 6 franchi per gli astensionisti non giustificati, mentre il Vallese manifesta da tempo come suo tratto ‘identitario’ una forte partecipazione non solo alle elezioni cantonali, ma anche alle federali. Tornando al Ticino, resta il fatto che lo stesso dato che appare negativo in chiave storica, restituisce invece un’impressione più positiva nel confronto intercantonale.