Dietro le quinte del thriller in sei episodi di Erik Bernasconi e Robert Ralston ambientato durante il Rabadan; e intervista alla produttrice Michela Pini
"Stiamo ribaltando il campo!". Neanche il tempo di capire cosa significhi l’indicazione gridata d’improvviso da chissà dove e chissà chi, che manca poco di ritrovarsi dall’altra parte del largo passaggio, ribaltati insieme a monitor, sedie bianche modello regista, carrelli di vario genere e altrettanto vario contenuto, sgabelli, microfoni e aste con microfoni, teloni, valigie e valigette; smontati e rimontati, spostati e riposti da un numero impressionante di persone che di primo acchito corrono qua e là senza uno schema e però, a guardar bene, si muovono che paiono seguire i passi di una coreografia ben studiata.
All’esterno della Biblioteca cantonale di Bellinzona si sta girando una scena di ‘Alter Ego’, serie tv con la regia di Erik Bernasconi e Robert Ralston; produzione Amka Films e Rsi Radiotelevisione svizzera Srg Ssr con la collaborazione della Ticino Film Commission e della Città di Bellinzona. Un thriller poliziesco in sei episodi da 45 minuti ambientato durante il Rabadan, le cui riprese – iniziate il 6 febbraio, dureranno fino al 21 aprile – si svolgono pressoché tutte a Bellinzona e immediati dintorni. Carnevale vero compreso.
Cappellino, cuffie, occhiali che mette e toglie, Erik Bernasconi ha lo sguardo fisso sul monitor mentre la giornalista Stella Ferrazzini (interpretata da Caterina Shulha) ripete la scena una, due, dieci e abbiamo perso il conto delle volte; ripresa da una, due e abbiamo perso il conto delle angolature. Sorride, incoraggia, dà indicazioni, aspetta che tutto sia pronto. "Non avere paura di camminare", consiglia a una comparsa e intanto alcuni finti poliziotti si riposizionano; "Ló-rén-zo Ghi-slèt-ta" suggerisce all’attrice. "Lorenzzzo?" dice lei, cercando di riprodurre la pronuncia ‘alla ticinese’ con la zeta dolce. E a un "Cut! Ok!" del ticinese, all’esordio in una serie tv ma con lunga esperienza alla regia, il set riprende improvvisamente vita. I ritmi sono serrati. «È una maratona – indica Olga Lamontanara, una delle produttrici –. Si gira undici settimane di fila, che sono tante. Ciò richiede resistenza e concentrazione, ma sul set c’è parecchia energia e tanto entusiasmo». Un buon umore palese, nonostante la corrente d’aria ancora frizzante (eufemismo) nonostante il cielo azzurro e le magnolie già in fiore; e allora capisci perché chi è abituato al set in esterna, è attrezzato con berretti e giacconi.
‘Alter Ego’ – spiega Alessandro Marcionni, produttore Rsi – è stato selezionato tra 165 progetti inviati in risposta al concorso indetto nel 2019, per una serie tv nazionale prodotta e girata in Ticino. «È una sfida, ma una sfida bella» per un lavoro dai numeri importanti: 52 attori, quasi settanta collaboratori (numerosi i ticinesi), oltre cinquecento comparse; un budget vicino ai cinque milioni e mezzo di franchi. E nei panni del personaggio principale un volto noto del cinema italiano: Gian Marco Tognazzi, che interpreta il commissario Leonardo Blum. La sceneggiatura è di Carlotta Balestrieri, Claudia Bellana, Erik Bernasconi, Andrea Valeri.
La messa in onda su Rsi è prevista a fine 2023 (da definire su Rts, Srf e Play Suisse); chi volesse mantenere un velo di mistero sulla trama, salti le righe seguenti (segue breve spoiler). All’indomani del giovedì grasso, il cadavere di una ragazza viene rinvenuto vicino a Bellinzona. La squadra di agenti impegnata nelle indagini si troverà a investigare su delitti che affondano le radici in un passato pieno di ombre. A essere esaminati non saranno infatti solamente i crimini che insanguinano la città, bensì anche e soprattutto l’animo umano, quello di una comunità che crede di non aver nulla da nascondere.
Con Amel Soudani e Olga Lamontanara e la produttrice junior Sarah Schiesser, Michela Pini è produttrice di ‘Alter Ego’ per Amka Films. Per due chiacchiere la incontriamo in Biblioteca, pena il rischio di finire involontariamente dentro una ripresa.
Michela Pini, come si diventa produttori?
In Svizzera, ma nemmeno in Europa, non ci sono formazioni specifiche. Per diventare produttori occorre fare pratica, essere persone con capacità organizzative e tantissima pazienza; non bisogna aver paura di lavorare parecchie ore al giorno ed è necessario essere bravi comunicatori. Infatti un produttore non solo, insieme a un autore, sviluppa una storia che poi diventa un film; ma deve occuparsi anche di tutti gli aspetti legati ai finanziamenti (per i quali vanno messi in conto anche dei rifiuti); oltre alla composizione del cast e della crew (che in Svizzera può arrivare fino alle quaranta-cinquanta persone per un lungometraggio, alle settanta per una serie tv e perciò è essenziale coltivare conoscenze e contatti); alla post produzione, all’iscrizione ai festival alla pubblicizzazione e via dicendo. La vita di un film richiede non meno di cinque anni di lavoro; un po’ meno quella di una serie. Per quanto impegnativo, il ruolo di produttore è assai affascinante.
Cast, troupe, finanziamenti. Il produttore è una sorta di tuttofare o c’è un compito che ‘conta’ più degli altri?
Il produttore è l’ultimo responsabile della buona riuscita del film. Quindi a volte non si dorme la notte – ride –. È anche colui che detiene i diritti del film. Di solito lavora a stretto contatto con il regista, e questa è la parte più creativa alla quale collabora. In un certo modo creativo è anche tutto l’aspetto della ricerca di finanziamenti: la scelta a chi chiederli e a come spenderli, la scelta con chi co-produrre. Il produttore è quello che rende il film possibile, rimanendo dietro le quinte e non stando per forza (sempre) sul set. È chi, insomma, mette in piedi la macchina.
Lei con quali criteri sceglie un progetto? Ci si innamora di un’idea o è una decisione, diciamo così, razionale?
Io tendo a scegliere sì i progetti, ma al contempo pure le persone. E mi spiego. La realizzazione di un film, visti gli anni che si investono, è quasi un matrimonio con il regista. Per me è dunque fondamentale lavorare con persone con le quali vado d’accordo e che abbiano la mia stessa visione. È importante che il regista senta sua la storia che vuole raccontare. A volte la storia è, almeno in parte, autobiografica; spesso è qualcosa che l’autore ha la necessità di narrare. Io cerco sempre vicende emozionanti; e con emozionanti intendo che possono farci ridere o piangere oppure riflettere, su temi che, in qualche modo, ci ‘lavorano’ un po’ dentro. Perché la mia speranza, se non proprio il mio sogno, è che quando lo spettatore spegne la televisione o esce dalla sala cinematografica, abbia provato un’emozione. Poi ci sono altri fattori importanti: ad esempio produco diversi lavori di registe donne, ultimo in ordine di tempo il film ‘Semret’ della ticinese Caterina Mona proiettato anche al Locarno Film Festival 2022. Poi capita di sbagliarsi. Oppure non ci si sbaglia e però non tutti i progetti sono fortunati. A volte si investono tempo ed energie nello sviluppo di un’idea, ma non si ottengono i finanziamenti e quindi va messa in un cassetto.
Cosa significa essere donna nel mondo della produzione cinematografica? È ancora difficile o non lo è mai stato?
In Svizzera, se si fa un paragone con altre professioni, direi che nel cinema siamo fortunate. Ci sono professioni che sono spesso svolte da donne, penso a truccatrici, costumiste, segretarie di edizione. Sono numerose anche le distributrici; mentre è alla regia che le donne sono un po’ meno. Inoltre dal punto di vista salariale le condizioni sono uguali; e ci mancherebbe mi vien da aggiungere.
È complicato fare produzione in Ticino?
Rispetto ad altri Paesi in Svizzera è più semplice, poiché esiste un sistema di sostegno al cinema che è buono. Buono, ma negli ultimi anni purtroppo non più sufficiente: i finanziamenti destinati al settore sono infatti direttamente proporzionali alle entrate nelle sale e in Ticino, come in Italia, la gente non va più al cinema. Di conseguenza i soldi da investire sono meno. Buono, il sistema di sostegno, ma al contempo estremamente selettivo. E in tal senso in cantoni come Zurigo e Ginevra, con maggiori risorse, è più semplice trovare risorse per il cinema.
Il produttore, come il regista, a un certo punto deve lasciar andare il suo film. Lei ci riesce con più o meno facilità?
Ehhh – sorride –. Un film è un insieme di parecchi compromessi: perché il tempo per girare è quel che è, visto che i soldi sono quelli che sono; perché magari vuoi un attore conosciuto, il quale però ti dà disponibilità per tre giorni invece di cinque; perché si ha una coproduzione con la Francia, per fare un esempio, e dunque bisogna prevedere delle riprese anche in Francia; e potrei continuare. Il produttore all’inizio lavora a stretto contatto con l’autore o gli autori e il regista; poi arriva il turno del direttore della fotografia, dello scenografo, della costumista e il regista inizia a lavorare con queste figure professionali. Quindi il produttore si deve mettere un po’ da parte e trovo che sia giusto così; per poi tornare a essere più presente nella fase di montaggio. Infine, se si trova un distributore, si lasciano a lui idee e modalità di pubblicità e vendita del film; indipendentemente dai propri gusti o visioni. A un certo punto, cioè, bisogna dare in mano il proprio film a chi è capace di farlo girare.