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Reds e Blancos nel segno di Paisley e Boskov

Gli ottavi di Champions propongono stasera il big match fra Liverpool e Real Madrid, sfida che è stata più volte finalissima della competizione

21 febbraio 2023
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Quando ad affrontarsi sono Blancos e Reds – i due club di maggior fascino del continente – è inevitabile tornare con la memoria agli anni in cui questa partita mise addirittura in palio il massimo trofeo. Ben tre volte, infatti, Liverpool-Real Madrid è stato l’atto conclusivo del torneo. L’ultima volta avvenne la scorsa primavera, quando il match iniziò con clamoroso ritardo per via di una pessima organizzazione e quando a trionfare furono gli spagnoli, capaci di superare di misura gli inglesi a Saint-Dénis, sede scelta per sostituire San Pietroburgo, ritenuta non più idonea dopo l’invasione russa dell’Ucraina. E proprio in Ucraina, a Kiev nel 2018, si giocò fra queste due leggendarie società un’altra finale: anche in quel caso a imporsi furono gli iberici (3-1) in una serata ricordata soprattutto per il dramma del portiere tedesco Karius, le cui clamorose cappellate privarono il Liverpool del suo sesto successo nella competizione e regalarono alle Merengues la vittoria numero 13, la terza consecutiva. Dapprima il poveretto, rinviò con le mani, direttamente sul piede di Benzema, che fu lesto a insaccare, e poi si fece uccellare da un tiro innocuo da 25 metri che Bale scagliò centrale e senza troppa convinzione.

La sfida del Parco dei Principi

La più antica delle finali fra Real Madrid e Liverpool fu invece disputata oltre quarant’anni fa, il 27 maggio del 1981, e anche in quell’occasione si giocò a Parigi, dove lo Stade de France ancora non esisteva e quindi teatro del match fu il Parco dei Principi. Gli inglesi, a quell’epoca, dominavano il calcio continentale: i Reds avevano vinto il massimo trofeo nel ’77 e nel ’78 – prima di lasciare spazio alla doppietta del Nottingham Forest (l’unica squadra ad aver vinto pìù Champions che campionati) – e si apprestavano a riaprire il loro ciclo vincente, che sarebbe durato fino alla metà degli anni 80. Gli spagnoli invece – che avevano a lungo dettato legge agli albori della competizione – tornavano a disputare l’atto conclusivo dopo la bellezza di 15 anni e non lo avrebbero più fatto nei 17 anni seguenti. La finale del 1981 fu dunque, per il Real Madrid, l’unica parentesi di luce in oltre un trentennio di tenebre. E, oltretutto, gli andò pure male: a vincere 1-0, infatti, fu il Liverpool con una rete firmata da Alan Kennedy a una manciata di minuti dal novantesimo.

Si trattava, ad ogni modo, di due grandi squadre: Clemence, Hansen, Dalglish, McDermott e Souness con la casacca rossa; Camacho, Stielike, Del Bosque e Santillana di bianco vestiti, oltre a Juanito e Cunningham, destinati purtroppo entrambi a perire giovanissimi in incidenti stradali. Ma i personaggi più carismatici e pittoreschi, su entrambi i fronti, non erano i giocatori, bensì i due allenatori, autentiche leggende del football mondiale. Parliamo di Bob Paisley e Vujadin Boskov, tanto diversi fra loro dal punto di vista caratteriale – e per la piega presa dalle rispettive carriere – quanto simili a livello di preparazione e leadership.

Il fedelissimo

Robert Paisley, ovviamente detto Bob, nasce nel 1919 a Hetton-le-Hole, paesello coperto di polvere di carbone non lontano da Sunderland, a mezza strada fra Manchester ed Edimburgo. Il solo stipendio del padre minatore non è sufficiente a sfamare la numerosa famiglia, e così Bob fa spesso capo alla mensa dei poveri. A 14 anni il ragazzino lascia la scuola e, con un fratello di poco maggiore, trova impiego nella miniera dove il padre respira veleno da una ventina d’anni. Non molto tempo dopo, il vecchio subisce un grave incidente proprio sotto gli occhi dei suoi figli: resterà inabile al lavoro per diversi anni e, visto che la società mineraria lo liquida con due soldi, la famiglia si ritrova ancor più povera di prima. Le disgrazie, si sa, non vengono mai sole, e infatti nel giro di pochi mesi la miniera chiude i battenti. La fortuna è che il giovane Bob, oltre a riconvertirsi in muratore, gioca bene a pallone e qualche sterlina – con la maglia dei dilettanti del Bishop Auckland – riesce comunque a portarla a casa.

Difensore con molta garra e dai piedi non troppo scarsi, Paisley viene notato dagli scout di diversi squadroni e, nel 1939, a vent’anni, firma per il Liverpool. Parrebbe il classico sogno che si realizza, la parabola del poverello che trova infine riscatto, denaro e gloria, ma non è così. Per debuttare in prima squadra coi Reds dovrà infatti attendere addirittura il 1946, dopo aver passato sotto le armi l’intera Seconda guerra mondiale. Arruolato nei leggendari "Topi del deserto" di Montgomery, combatte dapprima in Africa e poi sbarca in Sicilia, dove inizia la risalita verso nord che libererà il Belpaese. «L’ultima volta che sono stato a Roma», disse nella Città eterna la vigilia della finale di Coppacampioni del 1977, «ero dentro un carro armato».

Congedato a guerra finita, esordisce finalmente nel Liverpool ventisettenne e regala ai tifosi Reds un titolo nazionale che aspettavano da 24 anni. Divenuto capitano nel 1951, dirigerà la difesa fino al 1954, quando a trentacinque anni e dopo 252 partite condite da 10 gol decide di lasciare Anfield.

Ma non è un addio: fedelissimo a quei colori, Paisley entra subito nello staff tecnico del club e per un lustro allena le riserve, prima di diventare assistant coach del first team, fortemente voluto da Bill Shankly, iconico capo-allenatore dei Reds che, nel 1974, dopo 15 stagioni al timone, gli cederà la panchina. Afferrate le redini, Paisley – sulle cui capacità tattiche nessuno nutriva dubbi – aprì il ciclo più vincente della storia del club. Sotto la sua direzione (che durò fino all’83), infatti, il Liverpool, che resterà la sua unica squadra sia come giocatore sia da tecnico, metterà in bacheca 6 campionati, altrettante Charity Shield, 3 Coppe di Lega, una Coppa Uefa, una Supercoppa europea e soprattutto la bellezza di 3 Coppe dei campioni, l’ultima delle quali vinta come detto nel 1981 contro Vujadin Boskov, uno che invece di panchine ne ha cambiate in carriera quasi una ventina.

Il giramondo

Venuto al mondo nel 1931 a Begec, villaggio lungo il Danubio a 15 km da Novi Sad, il centrocampista dai piedi educati Boskov – che si ispira al brasiliano Didi e al magiaro Hidegkuti – diventa una bandiera del Vojvodina, squadra faro della sua regione alla quale però, da giocatore, in oltre 10 anni non riuscirà a far dono nemmeno di uno scudetto, a quell’epoca appannaggio di squadre come Hajduk, Stella Rossa, Partizan e Dinamo. Si consolerà con la nazionale jugoslava, di cui veste a lungo la maglia, collezionando una sessantina di gettoni. Giovane di buona educazione e svariate letture, al contrario di Paisley studia fino a laurearsi in storia e sposa Yelena, giornalista affermata e intellettuale di spessore. Raggiunti i 30 anni – l’età necessaria nella Jugoslavia di quei tempi per poter andare a giocare all’estero – con moglie e figlia Boskov approda a Genova, sponda doriana, dove un infortunio gli impedisce di rendere al meglio: nell’unica stagione sotto la Lanterna, il serbo colleziona solo 13 gare e una rete. Accetta dunque le lusinghe dello Young Fellows e sbarca a Zurigo a trentun anni suonati e con un fisico ormai logoro.

La tappa elvetica sarà la sua fortuna: un giorno l’allenatore austriaco Patek si fa male durante un allenamento, si sfila il fischietto di bocca e lo porge a Vujadin, dicendogli: «Va’ avanti tu». Il serbo chiuderà dunque la sua carriera – in cui non verrà mai ammonito né tantomeno espulso – ricoprendo il doppio ruolo di allenatore-giocatore fino al 1964, anno in cui fa ritorno al Vojvodina per portarlo – almeno da tecnico – al suo primo titolo nazionale. L’exploit induce i dirigenti federali a dargli la panchina della nazionale, che guiderà per un paio d’anni con risultati più che discreti. Nel 1974, però, in seguito a dissapori col maresciallo Tito e col suo regime, Boskov e signora scelgono di nuovo l’esilio, che stavolta li porterà dapprima in Olanda (Den Haag e Feyenoord) e poi in Spagna. Zingaro per vocazione e straordinario poliglotta, Boskov lascia buoni ricordi ovunque gli capiti di allenare. Dopo una buona annata al Real Saragozza, a ingaggiarlo sarà nientemeno che il Real Madrid, che dopo diversi anni lontano dalla ribalta europea vorrebbe tornare a occupare un ruolo di spicco. Boskov, che fin lì oltre a un campionato jugoslavo aveva vinto solo una Coppa d’Olanda, non tradisce le aspettative dei dirigenti: conquista subito la Liga (1980) e l’anno seguente – come visto in apertura – guiderà la cavalcata delle Merengues in Coppa dei campioni fino alla sfortunata finale di Parigi. Per riconoscenza, gli viene rinnovato il contratto di un’ulteriore stagione, ma non oltre: il divino Alfredo Di Stefano vuole per sé la panca madridista e Boskov, nel 1982, se ne va a Gijon, prima tappa della seconda parte della sua carriera, quella che più tardi lo vedrà rimettere piede in Italia, il Paese dove la sua filosofia calcistica – ma soprattutto la sua intelligenza e la sua ironia – riusciranno a emergere appieno e a farne, grazie alla sue battute a metà fra saggezza e surrealismo, un personaggio adorato da tutti e ancora oggi rimpianto e citato praticamente in continuazione.

Il suo autentico capolavoro, ovviamente, lo realizzò nel periodo sampdoriano: sei stagioni abbellite da qualche Coppa Italia, una Coppa delle coppe, uno scudetto più che miracoloso e un’altra finale persa di Coppa dei campioni, nel 1992 a Wembley contro il Barcellona. Quando nel 1999 il presidente del Perugia Gaucci lo cacciò in malo modo, Boskov se ne andò senza nemmeno svuotare il suo ufficio, dove appeso a una parete rimase il famoso fischietto di Patek, che Zio Vuja si era portato dietro ovunque lungo l’intera sua carriera. Aveva deciso che non avrebbe più allenato, e dunque non gli sarebbe più servito. Pochi mesi dopo, però, accettò l’offerta della Federazione calcistica di Belgrado, e l’ultima sua panchina fu dunque quella della nazionale jugoslava, anche se ormai il Paese si era dolorosamente frantumato e somigliava ben poco a ciò che era stato un tempo.

Come nel caso di Bob Paisley (morto nel 1996) anche gli ultimi anni di vita di Boskov (spentosi nel 2014) furono purtroppo segnati da una forma assai aggressiva della malattia di Alzheimer.