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Ancelotti, il ct mistico: te lo dà lui il Brasile

Il suo calcio non-ideologico è quello che più si avvicina allo spirito della nazione. Dovrà provare a vincere il Mondiale mettendo al centro il talento

Sopracciglio eternamente alzato per Ancelotti
(Keystone)
6 luglio 2023
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Forse lo avremmo dovuto capire quando è uscita quella foto iconica. Sul pullman dei festeggiamenti per l’ennesima Champions League, quella miracolosa delle rimonte, Carlo Ancelotti è vestito elegante, indossa gli occhiali da sole, tiene i capelli pettinati all’indietro e fuma il sigaro con aria da duro. Un po’ scrittore sudamericano, un po’ boss dei film di Scorsese.

Dietro di lui l’intera colonia brasiliana del Real Madrid campione e tre dei migliori talenti della Seleçao del futuro: Rodrygo, Vinicius Jr., Eder Militao. Un tifoso si è tatuato l’immagine di Carletto in quella posa, incoronata dalla frase minacciosa pronunciata dal tecnico: “Novanta minuti al Bernabeu sono molto lunghi”.

Potere ‘sovrannaturale’

L’immagine è la memificazione del potere mistico acquisito da questa tarda versione imperiale di Carlo Ancelotti, ma racconta anche del suo rapporto privilegiato con alcuni dei giocatori più influenti della Seleçao brasiliana.

Tutti hanno espresso soddisfazione alla notizia nell’aria da mesi ma ufficiale da ieri: dal 2024 Carlo Ancelotti sarà il nuovo ct della Nazionale brasiliana. Fino a quel momento a ricoprire il suo incarico, ad interim, sarà Fernando Diniz, tecnico della Fluminense che nel frattempo manterrà anche il suo lavoro nel club.


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Tutti giù per terra dopo la sconfitta ai Mondiali con la Croazia

Allenatore e secondo papà

“Dove arriva, vince” ha scritto Rodrygo; Richarlison ne ha parlato come di una figura paterna: “Lì all’Everton mi ha aiutato molto, ho iniziato a segnare senza sosta. Sono diventato suo amico. Mi ha portato a casa, mi sentivo già suo figlio”. “Ancelotti ha vinto tutto, ci insegnerà sicuramente molto” ha dichiarato Neymar, leader della squadra, che qualche settimana fa aveva detto di volerlo sulla panchina verdeoro.

Non scopriamo certo oggi la capacità empatica di Ancelotti, la capacità di farsi volere bene dai suoi giocatori. Conosciamo anche il suo curriculum, l’immortalità raggiunta negli ultimi anni di successi. Ci può sembrare quindi una decisione scontata, che una delle migliori nazionali al mondo scelga uno dei migliori allenatori al mondo. Ma questa decisione è in realtà rivoluzionaria.


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Le lacrime di Vinicius e Neymar

Idea rivoluzionaria

È un riconoscimento alla carriera di Ancelotti, ma lo è soprattutto per il valore simbolico che si porta dietro. Sappiamo quanto le nazionali possono essere chiuse all’idea di assumere un allenatore straniero, ed è una regola che vale in modo particolare per il Brasile.

Ancelotti sarà il primo ct non brasiliano a sedersi sulla panchina verdeoro, almeno se escludiamo casi poco significativi, come l’argentino Filpo Núñez per una partita nel 1965, l’uruguaiano Platero per quattro partite negli anni Venti e il portoghese Joreca, che è stato co-allenatore per due partite negli anni 40 (ma che aveva vissuto praticamente tutta la vita in Brasile).

Nessun allenatore straniero ha mai guidato la Nazionale brasiliana ai Mondiali. Tra i possibili candidati stranieri non c’era solo Ancelotti, ma anche Guardiola e Mourinho. In Brasile l’opinione pubblica si è divisa e alcuni ex giocatori della Seleçao hanno espresso opinioni fortemente conservatrici: “È una mancanza di rispetto verso gli allenatori brasiliani” aveva detto Rivaldo, che si augurava che il Brasile fosse guidato da qualcuno che ha “sangue brasiliano nelle vene”. Una posizione simile a quella espressa da Cafu.


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La delusione di un tifoso brasiliano nel 2018

País de futebol

Il Brasile si auto-definisce il “País de futebol”, là dove il calcio, inventato dagli inglesi, si è perfezionato come una forma d’arte. Nel calcio il Brasile ha un terreno di negoziazione dei propri valori e della propria identità nazionale. In campo la Seleçao rimette in scena l’identità brasiliana: un’identità meticcia, artistica, fantasiosa.

In nessun Paese gli intellettuali hanno scritto tanto di come l’identità nazionale si mescoli con lo stile di gioco dei suoi calciatori. Nei lavori di Gilberto Freyre o di Roberto Da Matta si costruisce l’immagine mitica del brasiliano meticcio, astuto, capace di approfittare delle zone grigie del sistema, danzatore e calciatore formidabile.

Per il Brasile non basta vincere, bisogna farlo anche in un certo modo. Bisogna costruire una Nazionale fondata sulla condivisione del linguaggio tecnico tra i suoi giocatori, che devono associarsi tra loro in modo spontaneo e senza troppe rigidità tattiche.


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Pelé alza la Coppa Rimet del 1970

I due traumi

La storia dell’ultimo mezzo secolo di calcio brasiliano è fondata su due traumi. Il primo è quello della perfezione compiuta del Mondiale in Messico nel 1970, la squadra più bella di sempre, che Zagallo ha creato lasciando libertà ai più grandi talenti del calcio brasiliano: il canto del cigno della Futebole Arte prima dell’arrivo del Calcio Totale. Il secondo è la sconfitta contro l’Italia ai Mondiali di Spagna del 1982. La squadra di Tele Santana restituiva luce all’idea della Futebol Arte grazie al quadrato magico (Cerezo, Socrates, Zico, Eder), ma si è scontrata contro il calcio cinico dell’Italia di Bearzot e Paolo Rossi.

Il calcio brasiliano successivo nasce dalle conseguenze di questi due traumi: la ricerca dell’idillio mitico perduto del 1970, e il risarcimento per la bellezza sconfitta del 1982. Scottato dal romanticismo perdente di quella Nazionale, il Brasile ha progressivamente accettato di scendere a compromessi con le idee del calcio europeo.


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Il tabellino del Mineirazo del 2014

Le vittorie imperfette

Sono arrivati altri due Mondiali, celebrati con una gioia sporcata dall’idea che quello non fosse il modo giusto di giocare a calcio. Paulo Cesar, campione del mondo del ’70, ha detto esplicitamente di non aver celebrato il Mondiale vinto nel ’94: “La Seleçao che ha giocato nell’82 ha perso, ma chi se ne frega. Era una squadra fantastica. Nessuno parla della squadra che nel ’94 vinse i Mondiali. Non celebriamo quella vittoria. Era invece il segno dell’alto prezzo pagato fino a oggi per quello che è successo nell’82, almeno nei termini di qualità del calcio giochiamo. Dall’82 la bellezza del calcio è andata, finita”.


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Cafù con la Coppa nel 2002

Il fallimento di Tite

La situazione era sostenibile finché arrivavano i successi, ma dal 2002, per quattro delle cinque edizioni seguenti, il Brasile è stato eliminato ai quarti di finale del Mondiale. La squadra di Tite era una corazzata: 60 vittorie in 81 partite, solo 6 sconfitte, ma una decisiva e traumatica ai quarti dell’ultimo Mondiale contro la Croazia.

Tite aveva costruito una squadra solida e difficile da battere, ma per una parte dell’opinione pubblica brasiliana aveva compromesso troppo le proprie idee con quelle europee.

Il suo Brasile praticava un gioco di posizione molto classico, di ispirazione spagnola e olandese. Che vantaggio c’era ad avere un allenatore brasiliano se poi quello scimmiottava la scuola europea? Se bisognava tradire la Futebol Arte tanto valeva farlo con l’originale del Gioco di posizione, e cioè Guardiola. Oppure scegliere un allenatore brasiliano che rispettava davvero lo spirito del gioco del paese, come Fernando Diniz della Fluminense.


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Il ct defenestrato, Tite

Lo spirito di una nazione

La scelta di Ancelotti, però, ha messo d’accordo tutti. È un allenatore vincente, ma in un modo che piace ai brasiliani. In questi anni ha rappresentato un’alternativa credibile ai tecnici troppo ideologici come Klopp e Guardiola. L’italiano ha mantenuto viva l’eterna ricetta che nel calcio il talento deve stare al centro di tutto, e l’allenatore deve scomparire dietro di esso, al massimo accompagnarlo con mano sapiente e delicata. La sua idea è condivisa dalla tradizione della Futebol Arte: avvicinare i migliori giocatori tra loro, lasciare che si esprimano e che risolvano da soli i problemi del calcio – che in fondo sono sempre gli stessi: fare gol, non subirne.

Ancelotti ha ancora un anno di contratto col Real Madrid. In questo periodo ad allenare il Brasile ci penserà Fernando Diniz, che è espressione proprio di quella corrente di pensiero che sostiene che la Seleçao dovrebbe smettere di inseguire le idee europee e tenere fede al proprio spirito. Da qualche anno la Fluminense di Diniz è una delle squadre più interessanti e radicali al mondo. Una squadra non vincente, ma che ha espresso una versione aggiornata della Futebol Arte.


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Zidane dominò la sfida col Brasile ai Mondiali del 2006

Diniz ama avvicinare i giocatori tra loro, creare una densità in zona palla quasi parossistica, giocare con i vuoti e i pieni del campo, e soprattutto assecondare l’intelligenza e la tecnica dei calciatori, che possono esprimersi con la massima autonomia. Grazie a lui nella Fluminense è tornato a brillare uno dei grandi talenti sfioriti del calcio brasiliano, il compassato ma delizioso Ganso.

In molti credono che comunque la Seleçao finirà nelle sue mani, e che Ancelotti prima o dopo gli lascerà il posto. Una transizione progressiva del calcio brasiliano verso le proprie origini, forse ispirata anche dalla vittoria del Mondiale dell’Argentina, soprannominata La Nuestra, che ha praticato un gioco molto libero, basato sulle relazioni tecniche, e che i brasiliani hanno guardato con invidia.


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La disperazione di Fernandinho. Il Brasile non vince i Mondiali dal 2002

La resurrezione di Carlo

Era impossibile immaginare questo scenario fino a solo due anni fa. Carlo Ancelotti sedeva triste sulla panchina dell’Everton e sembrava aver accettato il proprio declino. Tranquillo alla guida di una squadra di mezza classifica, storicamente problematica, ancora allenatore forse solo perché non aveva di meglio da fare. Era stato cacciato dal Bayern Monaco, accusato di allenamenti troppo fiacchi; se ne era andato dal Napoli dopo aver litigato con tutti, presidente e spogliatoio. Il suo calcio sembrava superato, inattuale e soprattutto pareva aver perso il tocco. Quella capacità intangibile di entrare in contatto con i club.

Il suo ritorno al Real Madrid, nell’estate del 2021, era indecifrabile. Una specie di esercizio di pigrizia di un club troppo grande per progettare il futuro, che deve solo lasciare che il tempo trascorra. Invece Ancelotti ha vinto un campionato e un’altra Champions League, in modo epico e leggendario, e ha aperto un nuovo ciclo.


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Ancelotti con il brasiliano Vinicius, suo pupillo al Real Madrid

Negli ultimi mesi a Madrid sembrava una specie di santo, di entità immateriale al di sopra di tutto. Ha rivendicato i suoi successi ai microfoni: unico allenatore ad aver vinto due Champions League con due club diversi; allenatore che ha vinto più partite di Champions e unico ad aver vinto il campionato in cinque Paesi. Con 10 titoli vinti, è il secondo allenatore più vincente del club più vincente, il Real Madrid. Le sue idee sono antiche come il calcio stesso e non passeranno mai di moda. Oggi ha la forza di chi non deve dimostrare niente: ha già un piede nell’eternità e uno ancora in questo mondo. Sembra poter trasformare in oro tutto ciò che tocca. A 64 anni è atteso dalla sfida più difficile, far tornare il Brasile campione del mondo.


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Il primo gol della Germania nello storico 7-1 al Brasile padrone di casa nel 2014