Qualche considerazione – onirica e no – partendo dal documentario ‘Je suis noires’, della regista svizzera Rachel M’Bon
Per farmi precipitare in un sonno agitato ci sono volute una serata al cinema, due noci della buonanotte (erano lì, come resistere?) e una decina di pagine di "Noi, umani", reportage antropologico di Frank Westerman che è sicuramente molto interessante, ma dopo le 23 si trasforma in un infallibile sonnifero. Poi ho fatto uno di quei sogni a colori in cui ne succedono di ogni, ma tutto appare perfettamente plausibile.
Infatti, senza bisogno di tante spiegazioni mi ritrovo come amico nientemeno che Roberto Baggio. Non solo: l’ho anche invitato al cinema, forse per l’ultimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo, forse per il secondo Avatar; la cosa non viene specificata ma, come succede nei sogni, è implicita. Fatto sta che Baggio accetta volentieri, così vedo noi due, nel sogno, mentre ci avviciniamo alle casse con le nostre fisionomie molto differenti: io diciamo ben piantato per terra, con quello che 10 anni fa era ancora definibile un accenno di calvizie; lui, ben più atletico, ha addosso la maglietta del Milan (i sogni, a volte, sanno essere crudeli).
Al momento di acquistare i biglietti (offro io), Roby largheggia e acquista (offro sempre io) una confezione di popcorn XXL. Nel sogno penso che dovrò sopportarne la ruminazione durante tutto il film, ma anche che, con il favore delle tenebre, potrò attingere anch’io di buon grado dal capace secchiello a righe bianche e rosse.
Insomma, prendiamo posto. Roby, contrariamente a come lo conosciamo, è su di giri, ha quell’atteggiamento guascone di chi già pregusta qualche grassa risata, fa qualche imprecisato commento ad alta voce, e con la sua confezione XXL in grembo sembra padrone del mondo. Spero solo che una volta abbassate le luci non continui a parlare: odio quando lo fanno gli altri, figuriamoci se mio malgrado ci finisco coinvolto.
Per fortuna non succede, perché quando in sala cala il buio il mio amico si zittisce all’istante: è a malapena udibile il rumore dei primi popcorn che gli si infrangono fra i denti. Ma c’è un altro rumore, a disturbarci (lo dico per convenzione, da sveglio, in realtà nel sogno il rumore non è disturbante: c’è e basta). Proviene dalla fila di dietro, dove un tizio sta letteralmente infierendo, con un imprecisato oggetto pesante, su un guscio di noce particolarmente coriaceo. Non è che io veda che lo fa, ma so che lo fa. Nei sogni succede. Insomma, in tutti i modi tenta di aprirlo, ma non c’è verso.
Mentre l’uomo prosegue nella sua personale battaglia, inizia il film. Con mia grande sorpresa, la prima immagine è quella di una donna di colore, con dei lunghi capelli raccolti in tante treccine, che cammina con la schiena rivolta al pubblico su una strada di città. È un’immagine grigia, triste. Sento che Baggio smette improvvisamente di masticare: ha un sussulto come chi ingoi un boccone troppo grosso. Intanto, nella fila di dietro, prosegue l’assurda lotta fra l’uomo e la noce, mentre le immagini continuano a scorrere ed emerge con sempre più chiarezza che con Aldo, Giovanni e Giacomo il film non ha niente a che fare. Com’è, come non è, a un certo punto mi accorgo che il posto accanto al mio è vuoto: Roby è sparito. Poi mi ritrovo, nel sogno, con la testa sott’acqua e mi sveglio di soprassalto: è il gatto che mi sta leccando la faccia.
Al risveglio definitivo, qualche ora dopo, capirò alcune cose: innanzitutto che il film del sogno è quello che avevo visto la sera precedente: "Je suis noires" ("Io sono nere", al plurale). Si tratta di un documentario, realizzato da Rachel M’Bon (che in effetti ha una testa piena di treccine "afro") che racconta le storie di donne svizzere, come lei, le quali a causa del colore della loro pelle non solo subiscono ogni giorno vessazioni, umiliazioni e limitazioni sociali di ogni genere, ma sono cresciute alla costante ricerca, spesso vana, di una loro identità: sono troppo nere per essere considerate svizzere, ma anche troppo svizzere – o addirittura troppo bianche, ancorché meticce di pelle scura, essendo nate da un genitore bianco e uno di colore – per essere considerate nere da chi è nato da genitori entrambi neri. Insomma, un autentico rompicapo. Tant’è vero che le loro vite rimbalzano fra due drammi: il sentirsi straniere in una Patria che non vuole riconoscerle, e non perde occasione di farglielo presente; e l’ancor più distruttiva, intima sensazione di non riuscire a capire chi sono veramente, né dove sia il loro posto nel mondo.
Ma Baggio, i popcorn e quello di dietro alle prese con la noce? Qualche basilare rudimento junghiano mi torna utile per interrogare il mio subconscio e provare a sbrogliare la matassa. Dunque, vediamo… Baggio, da calciatore, l’ho amato molto. Ma non basta… Un attimo: veniva chiamato Divin Codino… ma cosa c’entra con un film che ci coinvolge, come svizzeri di pelle bianca, fino al punto di farci vergognare? Beh, il mio subconscio mi soccorre: la risposta, che arriva silenziosa e inesorabile, come il mio gatto durante la notte, è: una certa Destra, estrema, codina per credo e spesso anche per missione. Divina, per l’appunto. Eccolo l’anello di congiunzione (ed ecco trovato un posto anche per il trattato antropologico che ho sul comodino).
Parliamo di quella stessa Destra che si lamentava per i "troppi neri in Nazionale" ("Va bene un tirapalloni color cioccolato, ma tre mi sembra francamente esagerato", ebbe a scrivere un fiero portabandiera) e che propose a un certo punto, da uno scranno bernese, di abolire la Commissione federale contro il razzismo, perché in Svizzera il razzismo non esiste e una commissione del genere serve al massimo al Partito socialista per farsi pubblicità. Correva l’anno 2018: l’altroieri.
E i popcorn? Suppongo possano simboleggiare il profluvio di soldi pubblici sotto il quale i reazionari (ma non solo loro) non aprono certo gli ombrelli. Poi c’è la noce. Potrebbe coerentemente essere legata alle due che mi sono mangiato prima di andare a nanna. Ma perché inscalfibile, e cosa c’entra con il cinema? Interpreto liberamente: quando certe convinzioni sono particolarmente granitiche, all’apparire di una incontrovertibile verità contraria l’anima, puf, evapora. E rimane solo un secchio di popcorn, malamente rovesciato.
Poi, magari, sulla stessa poltrona del cinema ci mettiamo uno di quei destrorsi veraci, quelli che "il negretto" è solo un simpatico modo di dire da osteria, ammiccando ai consimili. Così il film di Rachel M’Bon se lo può guardare tutto, fino in fondo. Ma non siamo così "naïf": probabilmente non cambierà nulla. Anzi, forse si addormenterà persino, e per la legge del contrappasso, al risveglio, ci dirà di aver sognato un asino, e che quell’asino ero io. Ma ci sta.