cinema

Razzista è lo sguardo

Intervista a Rachel M’Bon, autrice del film ‘Je suis noires’ che racconta la vita sofferta delle donne nere svizzere. Da giovedì nelle sale ticinesi.

L’autrice e regista Rachel M’Bon in una scena del film documentario
(First Hand Films)
17 gennaio 2023
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Mi sono sempre chiesta perché le donne nere – mica tutte, diciamo alcune – indossino una parrucca. Una curiosità forse ingenua, oppure cieca; chi lo sa. La motivazione però non è altrettanto superficiale quanto il mio interrogativo. Anzi, problematizza una questione molto greve, sempre attuale, perciò urgente: alcune di loro nascondono la propria capigliatura naturale perché distintiva – insieme al colore della pelle – delle proprie origini e considerata fuori dalla norma, bianca naturalmente. Un’identità discriminata e vittima di pregiudizi e razzismo sistemico che, anche in Svizzera, per omologarsi al contesto in cui vive nega e opprime le sue origini, o parte di esse, con indicibile sofferenza.

Sette donne, sette storie, una voce

E di sofferenza, emancipazione e resilienza – un percorso individuale prima, collettivo poi – parlano le sette storie raccontate in ‘Je suis noires’ (2022), un film documentario scritto da Rachel M’Bon (fra le protagoniste) che, insieme alla regista Juliana Fanjul, lo ha anche diretto.

Spicciamo le informazioni di servizio: dopo essere stato presentato per la prima volta nella Svizzera italiana in ottobre, alla nona edizione del Film Festival Diritti Umani Lugano, il documentario sarà nelle sale cinema ticinesi da giovedì 19 gennaio. In anteprima, verrà proiettato in presenza di M’Bon domani sera (mercoledì 18) al Cinema Lux di Massagno (20.30).

L’uscita del documentario che racconta uno spaccato di vita delle donne nere in Svizzera ci ha dato la possibilità di intervistare la sua autrice, nata nel 1974 nel Canton Friburgo da padre congolese e madre svizzerotedesca. Rachel M’Bon ha studiato marketing e comunicazione e, dopo aver lavorato per agenzie pubblicitarie, si è dedicata al giornalismo. Questo è il suo primo film.

‘Pregavo di svegliarmi bianca’

La risposta al mio interrogativo l’ho trovata in questo intenso e ben realizzato film: me lo hanno insegnato le testimonianze intrecciate di Rachel, Tallulah (che da bambina pregava di svegliarsi bianca), Brigitte, Carmel, Amelle (che sogna un futuro autodeterminato per sua figlia), Paula e Khalissa (che per anni non si è guardata allo specchio). Sette donne molto diverse fra loro per età, carattere e professione; tutte svizzere con origini africane o meticce; tutte accomunate nell’essere vittime di discriminazione razziale caricata di sessismo, figlia di stereotipi radicati e normalizzati nel tessuto sociale. Le unisce anche il cammino di emancipazione dalla percezione stereotipata altrui – «lo sguardo», definisce Rachel – che per molti anni ha determinato la loro crescita e che le ha spinte alla negazione di sé. Fino alla rottura e alla presa di coscienza che scatena quel percorso – affrontato dalle protagoniste del film in modo diverso – e che in generale «parte dall’accettazione di sé e prosegue con la ricerca della propria identità, culminando nella resilienza (possibile solo dopo aver superato i danni) e nell’azione. Certo non è un cammino lineare e prende molto tempo – racconta la giornalista – io ci ho impiegato 45 anni per riuscire a diventare me stessa. A un certo punto ho capito che tutti gli sforzi fatti per essere una specie di svizzera perfetta, quasi bianca, non servivano a niente, perché lo sguardo delle persone su di me non cambiava. Ero così stanca di non sentirmi mai al mio posto».

Nel 2017, M’Bon crea l’account Instagram Noires, dando spazio e volume alle voci di donne nere svizzere. Dal confronto con loro, ricorda di aver compreso molto di se stessa e a un certo punto «ho capito che non potevo più negare la realtà e ho iniziato ad accettare le mie origini. È stato il momento in cui ho perso mio padre e ho deciso di divorziare. In quel momento il progetto del film era la sola cosa che mi rimaneva e ci ho messo tutta me stessa».

Ancora prima di entrare nel vivo della realizzazione del documentario (un paio di anni fa circa), la maniera di raccontare le sue interlocutrici è stata sin da subito un tema ben chiaro, intendendo scardinare l’immaginario che descrive le persone nere nel cinema e in altri ambiti, spesso sbagliato e che «corrobora una narrazione distorta. Ho quindi cercato un modo di combatterlo, contribuendo alla creazione di un’altra rappresentazione lasciando parlare le persone per sé stesse».

Tuttavia, non c’è una ricetta che ciascuna donna può seguire e il cammino di autodeterminazione non si conclude per forza con una conquista, anzi c’è chi rimane ingabbiata per tutta la vita negli stereotipi. E il documentario si propone di raccontare anche queste sfaccettature.

Fenomeno radicato

«Il razzismo strutturale è difficile da definire precisamente, perché ha diverse forme più o meno esplicite. Ma come denota l’aggettivo, si capisce che è parte del sistema e viene espresso in diversi ambiti: dalla scuola, al settore sanitario, passando per quello professionale» e non sempre è facile riconoscerlo, tanto alcuni cliché sono normalizzati, ma «questo fenomeno rende la vita difficile ed è dannoso per tutta la società».

Al di sotto della patina idilliaca (senza nulla togliere a quanto di buono il nostro Paese ha), si (ri)scopre una Svizzera in cui il razzismo sistemico è ancora oggi serpeggiante; nonostante certe figure sostengano il contrario, definendolo una "manipolazione della realtà". Nel 2018, un deputato leghista in Consiglio nazionale aveva depositato la mozione, poi prescritta, ‘Abolire la Commissione federale contro il razzismo’ (da cui si trae il virgolettato appena citato), perché il fenomeno non sarebbe attecchito nel nostro Paese. Andando oltre gli esponenti di destra, un altro fatto significativo è l’entrata in vigore della norma che permette di punire l’istigazione al razzismo, la discriminazione razziale e la negazione dei genocidi (l’articolo 261bis del Codice penale svizzero, per fare i fiscali) che data del 1995, una legge relativamente giovane che «dovrebbe aiutare la lotta al razzismo, ma di fatto non lo fa, perché la sua applicazione è molto macchinosa», postilla M’Bon.

La giornalista riconosce che alcuni passi in avanti siano stati fatti, «in particolare a livello di società civile, manca però ancora un impegno più incisivo della politica». Conclude ritenendo che il suo film possa agire «come uno strumento di sensibilizzazione e dialogo. Perché il dialogo è essenziale e fa la differenza».

Postilla

Di primo acchito, masticando un po’ di francese e leggendo il titolo del documentario salta subito all’occhio l’errore grammaticale: ‘Je suis noires’ è sbagliato. (Fughiamo subito i dubbi, non ha a che fare con gli slogan ‘Je suis…’). Ma lo sbaglio è voluto ed esprime, chiarisce Rachel, le dimensioni individuale e collettiva.

Bazzicando ancora nell’ambito linguistico – molto viscoso per la giornalista che, battuta dopo battuta, incorre nel pericolo di cadere nell’offesa –, non possiamo non sottolineare quanto sia una questione centrale nella reiterazione di un immaginario stereotipato, che partecipa alla già citata narrazione distorta. Insomma le parole sono un potente mezzo di discriminazione (più o meno consapevolmente). Ma non si scrive nulla di nuovo. A tal proposito, «personalmente trovo molto fastidiosa e ipocrita l’espressione ‘gente di colore’: che cosa vuol dire? Non si dice (o scrive) "nero" perché magari è razzista, ma razzista è lo sguardo. Dire "nero" è dire la realtà, perché è così che siamo considerati».