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Il sogno di Zeman, da Praga a Foggia via Cornaredo

Uscita da poco ‘La bellezza non ha prezzo’, autobiografia dell’allenatore ceco con capitoli dedicati pure all’Fc Lugano e al calcio di casa nostra

Il tecnico boemo quando sedeva sulla panchina bianconera (2015-2016)
(Keystone)
10 dicembre 2022
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"Zemanlandia, s.f. Il sistema di gioco, fantasioso e votato all’attacco, ideato e adottato dall’allenatore di calcio boemo Zdenek Zeman": un alieno che non avrebbe meritato l’onore di una definizione nel vocabolario Treccani se fosse atterrato, all’alba degli anni 70, in un Paese diverso dall’Italia, dove il difensivistico verrou dello svizzero Rappan, nazionalizzato in un più rustico catenaccio, è stato a tal punto esasperato e perfezionato da innalzarsi a visione del mondo e stile di vita, genius loci ed espressione sportiva dell’indole nazionale, per cui non vince chi segna più reti, ma chi ne subisce di meno. Un’oltraggiosa aberrazione per gli esteti come Jorge Valdano, in gioventù punta dell’Argentina di Maradona e del Real Madrid di Butragueño e oggi mendicante di bel calcio a mezzo stampa, a cui dobbiamo questa sconsolata riflessione: ‘Prima o poi l’allenatore italiano avrà pietà del cavaliere solitario che schiera in avanti e gli metterà vicino qualcuno a fargli compagnia: un cane, un gatto, un canarino’.

Primo, divertirsi

Nel calcio ottimista e spettacolare concepito da Zeman per il divertimento degli spettatori e prima ancora dei giocatori, l’attacco è invece il risultato di movimenti corali eseguiti ad alta velocità da tutta la squadra. Un calcio rischioso, che riporta all’essenza del gioco e alle ragioni per le quali da bambini si contrae irrimediabilmente il morbo e da adulti si fa di tutto per non guarirne. Zeman lo ha insegnato a tutte le latitudini e in tutte le categorie: i passi più interessanti dell’autobiografia "La bellezza non ha prezzo", scritta con Andrea Di Caro e pubblicata da Rizzoli, raccontano le prime tappe di questa ricerca estetica nelle categorie inferiori italiane, agli inizi della carriera. In quarta serie, nei primi anni 80, a Licata, in provincia di Agrigento, la faccia triste della Sicilia, allena una squadra che è una piccola nazionale isolana, con i giocatori che parlano tra di loro in dialetto e si chiamano Giacomarro, Fecarotta, Gnoffo, Schifilliti.

C’è pure Antonino Santonocito, un mediano che si esibisce in lanci di quaranta metri e dopo aver calciato si ferma a seguire orgoglioso la traiettoria del pallone. E c’è anche il centravanti Maurizio Schillaci, un fuoriclasse con la palla tra i piedi ma totalmente ingestibile fuori dal campo, cugino del più famoso capocannoniere dei mondiali del ’90. Una truppa di anti-eroi ("sono questi, stasera, i migliori che abbiamo?", avrebbe chiosato De André) che suona spartiti indecifrabili per gli avversari, annichiliti e sbigottiti da fraseggi rapidi e valanghe di reti, frutto di allenamenti durissimi affrontati con spirito di sacrificio, schemi provati a lungo in allenamento, un’attenzione maniacale all’alimentazione.

In prima pagina

Con questi metodi, che indurranno il fiero tradizionalista Gianni Brera a definire Zeman "tetro ginnasiarca" e addirittura "carceriere dello Spielberg", anche carneadi di provincia possono trovarsi catapultati sulle prime pagine dei giornali. È quello che accade qualche anno più tardi a Foggia: onesti e oscuri pedatori delle serie minori fanno faville in serie A, umiliando le grandi squadre del Nord sotto la guida dell’Alieno, elevato al rango di personaggio dalla stampa italiana, incuriosita da quel tabagista incallito che sfodera lunghi silenzi rotti da ironie taglienti, un’espressione neutra e impassibile, ma soprattutto la capacità, in un calcio che sperpera miliardi di lire per nomi da copertina, di plasmare una squadra dalla qualità superiore alla somma delle singole individualità, cavando a volte il sangue dalle rape. «A sinistra nel Foggia giocava Maurizio Codispoti, un terzino talmente veloce che si lanciava da solo: buttava la palla avanti e se la andava a riprendere. Ma al momento del cross poteva succedere di tutto perché i piedi erano quello che erano. Per aggiustargli la mira Casillo gli metteva centomila lire nello scarpino. Se non sbagliava poteva tenersele». Casillo, uno dei più genuini rappresentanti del modello ormai estinto di presidente-patriarca, vive la squadra più come il giocattolo di famiglia che un asset quotato in Borsa.

E Foggia partecipa, a modo suo, creando intorno alla squadra un’atmosfera alla buona, confidenziale, amichevole, protettiva, con risvolti curiosi e quasi paesani: «Quando pioveva andavamo nel campetto della vicina parrocchia di San Ciro, a circa duecento metri dallo stadio. Il venerdì però c’era il mercato in strada e, per raggiungerlo, si assisteva alla scena un po’ surreale ma vera dei giocatori che passavano accanto alle signore con le borse della spesa, tra i banchi di frutta e verdura. La gente li fermava, li incoraggiava, qualcuno offriva pure qualcosa da mangiare. Poi, arrivati davanti alla recinzione della parrocchia, invece di fare tutto il giro, scavalcavamo il muretto. Come si fa da ragazzini, come facevo io da piccolo a Praga per arrivare al campo di pallamano ghiacciato dove andavo a pattinare».

Ma almeno il campo da gioco dello stadio comunale, intitolato al sottotenente Pino Zaccheria, è in erba, a differenza del vecchio campo di Licata, dove cadute, scivolate e tuffi dei portieri potevano costare cari: «Solo chi ha giocato sui campi sterrati, duri, di quel marrone chiaro perché non piove mai, sentendo nelle narici l’odore forte e acre della terra secca, bruciata dal sole, che si alza a ogni contrasto, ti si appiccica addosso e ti porti dietro anche dopo la doccia… solo chi conosce quell’odore che è sinonimo di fatica, sacrifici ma anche voglia di giocare e sogni da realizzare, poi riesce ad apprezzare fino in fondo il profumo inconfondibile e fresco dell’erba. Nonostante quasi quarant’anni d’erba, io quell’odore acre lo sento ancora in fondo al naso e non l’ho mai dimenticato, perché mi ha fatto crescere come allenatore e come uomo. E spesso, nei momenti amari, mi ha ricordato la vera essenza di questo sport». Momenti amari che Zeman conosce quando, finita l’epoca delle sfide a biliardo e delle partite a carte nei ritiri, accede finalmente al calcio di vertice, ingaggiato in momenti diversi da entrambe le squadre di Roma.

Business e barbatrucchi

La gioia di insegnare calcio, di trasformare giovani promettenti in campioni e di emozionare i tifosi, presa sul serio e presa per gioco, si può incrociare ancora, ma è presa in trappola da un tailleur grigio fumo mentre cammina fianco a fianco col suo assassino: il calcio-reality dei diritti televisivi e degli uomini d’affari, dei barbatrucchi contabili e degli allegri chirurghi, tra una presa della pastiglia e una polemica al giorno, in un clima sospettoso e nevrotico che dietro ogni fischio arbitrale, ogni infortunio, ogni alito di vento immagina, non sempre a torto, complotti, congiure, fronde e imbrogli. Un’esasperazione che a Roma trova la sua massima, inscalfibile espressione nelle decine di radio locali che si occupano esclusivamente o quasi di calcio, trasmettendo dalla mattina alla sera dibattiti, analisi, fili diretti con i tifosi, in un continuo e asfissiante chiacchiericcio pallonaro che alimenta, rinfocola, a volte crea ad arte rancori e dispute.

Esilio ticinese

Nella centrifuga finisce anche Zeman: le sue dichiarazioni sulle esplosioni muscolari di alcuni calciatori lo rendono inviso ai gestori del calcio italiano, infastiditi dai battitori liberi, dai dissidenti, dai non allineati. Non stupisce allora che l’alieno viva il periodo luganese come una parentesi di serenità: nella stagione 2015-16, con il regista Piccinocchi e l’enfant du pays Mattia Bottani, conquista una sofferta salvezza e raggiunge la finale della Coppa Svizzera, persa per 1-0 contro lo Zurigo. «La stagione in Svizzera, dove molti club erano cresciuti anche a livello europeo, mi parve una buona occasione per riscoprire un calcio più semplice, dove ci fossero però il rispetto dei ruoli, delle regole e una gestione corretta della società. Da noi i club cominciano la stagione e non sanno se finiranno il campionato. Lì se non garantisci prima il pagamento ai dipendenti e un bilancio sano non ti fanno proprio partire».

Zeman si confronta con un calcio meno industrializzato di quello italiano, ma anche meno sentito a livello popolare, con risvolti anche curiosi: «Nella Lega svizzera c’era molta differenza tra alcuni club e tutti gli altri a livello di organizzazione e di impianti. Alcuni più bucolici sorgono in zone verdi e non è raro incrociare intorno ai campi di allenamento anche le mucche. In certe realtà la partita, a cominciare dai tifosi, viene vissuta come una scampagnata e cinque minuti dopo il fischio finale già non se ne parla più. Sono anni luce lontani dal nostro modo spesso esagerato e isterico di vivere il calcio».

Serbia e Turchia

In precedenza, altre due esperienze poco fortunate oltre i confini italiani: alla guida del Fenerbahçe, in Turchia, ostacolato da traduttori che travisavano apposta le sue dichiarazioni, e in Serbia alla Stella Rossa, dove i giocatori si ammutinavano se non ricevevano lo stipendio. Di tutto questo qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure: «Ho avuto tutto e il suo contrario. Sono entrato in stadi da sogno, con panchine più comode del divano di casa, e in impianti con le panche in legno, due sedie di plastica ai lati e una rete di recinzione alle spalle a proteggerti dai tifosi indiavolati. Ho lavorato in centri sportivi all’avanguardia e su campi spelacchiati con spogliatoi dove funzionava una doccia su due e l’acqua era pure fredda. Ho sfruttato palestre con ogni macchinario e usato i gradoni degli spalti e i sacchi di sabbia sulle spalle. Ho fatto tanti ritiri in hotel a 5 stelle e altrettanti in alberghi a Miramare dove la padrona era pure la cuoca. Sono stato assunto da presidenti in doppiopetto, accolti con tutti gli onori nell’alta finanza, e da poveri diavoli di periferia, con cravatte improbabili, abituati a trovare una soluzione all’ultimo minuto. Ho allenato campioni che guadagnavano miliardi e giovani a cui dovevo prestare i soldi per la benzina. Ho ammirato coreografie in curva da premio Oscar e tifosi con fumogeni fatti in casa… Ho visto tutto. E a volte sono stato meglio nelle situazioni arrangiate che in quelle apparentemente perfette, trovando nelle prime più seguito, umanità, voglia e disponibilità che nelle seconde. Ma dovunque mi sono portato dietro quell’odore dei campi in terra della mia Sicilia, dove tutto è cominciato».

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